“Tutankhamon: viaggio verso l’eternità”: la mostra che farà innamorare della storia i bambini.

“Tutankhamon: viaggio verso l’eternità” è il titolo della mostra aperta nella Galleria delle Carrozze, a Palazzo Medici Riccardi, fino al 2 giugno 2020.

“Tutankhamon: viaggio verso l’eternità”, a cura di Maria Cristina Guidotti, già curatrice del Museo Egizio di Firenze, e di Pasquale Barile, presidente della Ancient World Society,  è una mostra itinerante che sta facendo il giro del mondo. Si fermerà in Italia per due anni. Ed è appena atterrata a Firenze.

Il suo obiettivo? Avvicinare al fascino della cultura egizia.

Un grande esercizio di public relations del governo egiziano? Forse. E’ innegabile però che la cultura degli antichi egizi affascini tutti, da secoli.

Oppure si tratta di un’operazione puramente commerciale? Andiamo a vederla, questa “Tutankhamon: viaggio verso l’eternità”.

Appena entrati, subito si capisce che gli oggetti in mostra sono copie. Gli originali infatti sono la maggior attrazione del Museo Egizio del Cairo. Però.

Però non sono troppo “patacche”. Inoltre la mostra è strutturata con supporti multimediali. E così l’avatar di Howard Carter, l’inglese che scoprì la tomba inviolata di Tutankhamon, ci accompagna raccontandoci i fatti salienti della sua avventura. Con frasi brevi ed efficaci. Che rendono tutto facilmente comprensibile.  In più, l’allestimento è pensato anche per i bambini.

Ovunque sfavilla l’oro. Gli oggetti, tra i quali la celeberrima maschera funeraria, e il trono, sono impressionanti. E anche se sono riproduzioni, sono riproduzioni realizzate da artigiani egiziani abili. E si vede. L’oro- mi dicono – è vero, e le decorazioni sono tutte realizzate a mano, con tecniche antiche.

Addentrandosi nella visita si scopre poi che in mostra ci sono anche oggetti autentici, in prestito dal Museo Archeologico di Firenze (il secondo più importante di Italia, dove si è da poco conclusa una mostra sulle mummie veramente interessante).

Gli oggetti del museo servono a mostrare i corredi delle persone normali. E di contro, ad esaltare il fasto stratosferico di quello di Tutankhamon.

Ci sono state 32 dinastie nella storia millenaria dell’Egitto. Tutankhamon appartiene alle 18esima. Cioè sale al trono nel 1333 avanti Cristo. Quando ha 9 o 10 anni. Non si sa di chi fosse figlio. Forse della famosamente bella Nefertiti. Ma gli alberi genealogici dei faraoni sono intricatissimi e i matrimoni tra consanguinei, normali. Sarà forse per questo che Tutankhamon soffriva di malattie orribilmente deformanti, come mostra una ricostruzione impressionante nella parte finale della mostra?

Comunque se siete curiosi di approfondire un pò, i saggi in catalogo vi aiuteranno a farvi strada tra le varie generazioni dei suoi antenati.

Regna poco, Tutankhamon. Solo 9 anni. Muore quindi giovanissimo, e non si sa di cosa. Fu ucciso dal suo successore, che forse era suo nonno?! O cadde da cavallo?

Certo è che gli danno una sepoltura incredibilmente fastosa e ricca. O forse rientrava nella norma per un faraone? Non è dato saperlo.

Perchè la tomba di Tutankhamon è l’unico esempio di sepoltura reale con corredo ritrovata intatta. E’ proprio con la 18esima dinastia infatti che non si costruiscono più piramidi (troppo visibili per i ladri) e si comincia a nascondere le sepolture scavando sottoterra nella roccia.

Il fatto che nessuno prima di Carter avesse trovato la tomba di Tutankhamon vuol dire che ne emersero non solo oro a chili, e gioielli straordinari, ma anche, in 50 tra bauli e cofanetti, abiti (compresi perizomi, cioè mutande!), scarpe (per esempio un paio di sandali d’oro niente male), strumenti musicali, giochi (il senet, che è il più antico gioco al mondo), cibi (miele, frutti, mandorle, datteri, lenticchie, vino), archi e frecce, mobili, e tanti oggetti “magici” a protezione contro i predatori.

E guarda caso, è proprio un oggetto sacro del sepolcro di Tutankhamon, cioè l’Arca del dio Hanubis, che ha ispirato George Lucas e Stephen Spielberg per il loro famosissimo film “I predatori dell’arca perduta”.

Insomma, a visitare “Tutankhamon: viaggio verso l’eternità”,nonostante si tratti di repliche, ci si diverte e si impara. E i bambini e i ragazzi si innamoreranno della storia.

Dulcis in fundo, al termine della mostra, una sala con vari manichina spiega efficacemente come venivano create le mummie. E poi si può fare un’eperienza di Realtà Virtuale veramente immersiva nel viaggio verso l’eternità di Tutankhamon.

 

Margherita Abbozzo

Tutankhamon: viaggio verso l’eternità, a Palazzo Medici Riccardi – Galleria delle Carrozze, dal 15 febbraio – 2 giugno 2020. Il biglietto è caro. Ma ci sono 3 giornate ad ingresso gratuito per i residenti della Città metropolitana di Firenze: il 2 marzo, 6 aprile e 4 maggio.

 

“Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito”: al MAD Murate Art District.

La mostra collettiva “Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito”, un progetto del Black Month History a Firenze, ha aperto a MAD Murate Art District.

“Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito” prende il titolo da una frase dell’attivista Pape Diaw, e raccoglie opere di sei artisti originari di vari paesi.  Tutti lavorano intorno al tema di nozioni stereotipate della cultura italiana, esponendo il fatto che escludono gli “afro-discendenti”.

I sei sono M’Barek Bouhchichi, che viene dal Marocco; Adji Dieye (Italia/Senegal), Sasha Huber (Svizzera/Finlandia), Delio Jasse (Angola/Italia), Amelia Umuhire (Ruanda/Germania) e Nari Ward (Jamaica/USA).

Con il loro lavoro rielaborano le nozioni stereotipate che esistono nella cultura italiana intorno a quello che è africano, o afro-italiano, o afro-qualsiasi altra cosa.

E basta leggere i luoghi di provenienza indicati accanto ai nome di ogni artista per capire quanto sia necessario per la cultura italiana contemporanea guadagnare un nuovo e più articolato punto di vista. In tempi di Diciotti e Gregoretti la cosa diventa poi veramente urgente.

Il punto che la mostra “Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito” fa con elegante parsimonia è quello di farci riflettere sul fatto che ben nascosti tra le pieghe di concetti apparentemente normali si nascondano idee vecchie e perniciose.

Idee coniate in epoche lontane quasi cento anni eppure ancora utilizzate senza che ci si renda conto di quanto riflettano una mentalità colonialista e ancora di stampo fascista.

Così, “Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito” porta a Firenze nuovi modi di pensare. Nuovi per noi, ma ormai da anni al centro del dibattito culturale nei paesi anglosassoni. Che qui però ancora non attaccano veramente, nonostante qualche lodevole iniziativa.

Per questo la mostra rappresenta una ventata d’aria fresca. Abbiamo molto bisogno tutti di fare i conti con la nostra storia di colonizzatori. Nonchè di dare voce a chi è stato finora oggetto e mai soggetto.

Quindi grazie al Black History Month Florence, giunto a Firenze alla sua quinta edizione; e grazie a MAD Murate Art District, che presenta questa mostra davvero interessante. In collaborazione con Villa Romana (Firenze), Civitella Ranieri Foundation (Umbertide) e Galleria Continua (San Gimignano).

Occhio! Giovedì 20 febbraio alle 18.30 verrà proiettato il film Crossing the Color Line di Sabrina Onana. Si tratta di un documentario-testimonianza che presenta le storie, le esperienze e i punti di vista dei “nuovi italiani” di discendenza o origine africana.

I loro racconti in prima persona ci fanno conoscere giovani dall’identità ricca e complessa. Raccontano i loro rapporti con l’Italia, quelli con il paese d’origine dei genitori, e fanno i conti con la propria nazionalità. Alla proiezione seguirà un dialogo con la regista.

Segnalo inoltre che in concomitanza con “Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito”, fino al 29 febbraio prosegue negli spazi dell’Emeroteca di MAD Murate Art District l’esposizione dedicata al Black Archive Alliance Vol. I e II.

Si tratta di una mostra importante. E molto efficace. Raccoglie elementi del primo e secondo volume del Black Archive Alliance, che è progetto finalizzato alla costruzione di un archivio di tutte le realtà afro-discendenti a Firenze. La consiglio caldamente a tutti. Dovrebbero vederla gli studenti di scuole di ogni grado.

E questo non è che l’inizio. Perchè “Sporcarsi Le Mani Per Fare Un Lavoro Pulito” apre un semestre che Murate Art District dedicherà a “sguardi internazionali”.  Grazie MAD. Si tratta di un lavoro davvero importante.

Margherita Abbozzo. Tutte le fotografie sono state fatte da me. In ordine di apparizione sui vostri schermi, sono di opere di M’Barek Bouhchichi (in copertina); la prima, quarta e quinta sono di Nari Ward; l’ultima è tratta dal video di Amelia Umuhire. La mostra rimane aperta fino al 14 marzo.

“George Tatge, Il Colore del Caso” in mostra a Pistoia.

George Tatge è un fotografo molto noto per le sue fotografie in bianco e nero. Una bella mostra a Pistoia raccoglie il suo nuovo e sorprendente lavoro a colori.

George Tatge ha pubblicato molto, molto ha esposto, e ha vinto molti premi prestigiosi con le sue immagini in bianco e nero eleganti, poetiche e spesso leggermente surreali. Adesso, una mostra davvero bella a palazzo Fabroni a Pistoia ci dà l’opportunità di conoscere tutto un nuovo aspetto del suo lavoro: la fotografia a colori.

Il colore è veramente un nuovo campo della sua ricerca. Sorprendente. Anche per lui.

Ma andiamo con ordine. George Tatge, classe 1951, è di madre italiana e padre americano. E’ nato a Istambul. Dopo una gioventù passata tra l’Europa e il Medio Oriente, ha seguito studi (di letteratura) americani. Poi arriva la fotografia. E nel 1973, con la sua prima mostra a Milano, l’ Italia. Roma, Todi, e finalmente Firenze.

Fino a questa mostra tutto il lavoro di George Tatge è stato con la fotografia in bianco e nero. Per questo la mostra “George Tatge, Il Colore del caso”, curata con la consueta eleganza e finezza da Carlo Sisi, è una sorpresa e una rivelazione.

La mostra infatti, pensata proprio per le sale di palazzo Fabroni,  raccoglie 74 immagini recenti, tutte a colori. E che colori!

Si tratta di immagini strepitose che rivelano una sensibilità al colore completamente insospettabile in un fotografo che ha sempre lavorato con il bianco e  nero.

E’ George Tatge stesso a dirmi che usare il colore “e’ stato un tuffo improvviso dopo essere stato scosso dalla visita alla mostra di Odilon Redon, Prince du rêve, al Grand Palais nel 2011.”

E chiunque abbia visto quella mostra o conosca e ami Odilon Redon sa che parliamo di opere meravigliose e mozzafiato. Non si potrebbe desiderare miglior “battesimo” al colore di quello attraverso l’artista francese.

Sia nel caso dei pastelli di Redon che in quello delle fotografie di George Tatge, è impossibile restituire a parole le sensazioni create dai lavori. Si tratta di pura poesia visiva, sottile e potente al tempo stesso. L’unico modo per capire che cosa sia la poesia del colore di George Tatge è andare a immergersi di persona in questa mostra.

Queste nuove fotografie a colori vanno viste dal vero. Perchè sprigionano una poesia contagiosa.

C’è pura gioia nel colore di George Tatge. Per lui quando fotografa. E per noi che guardiamo. Non è troppo romantico affermare che queste sue immagini hanno davvero la capacità di rendere felici. Di una felicità che appunto non si può rendere con le parole ma che riempie il cuore di chi ha la fortuna di vedere questa mostra.

Ma perchè il titolo parla de “Il Colore del Caso”? Perchè George Tatge ama gironzolare, andare a zonzo senza una meta fissa. In modo da lavorare con il caso e la fortuna. Che possono essere generosi ma che bisogna saper riconoscere ed apprezzare. Il che richiede un modo di porsi che non si può improvvisare e che bisogna al contario coltivare.

Coltivare e saper rendere. Per questo concludo con qualche nota tecnica importante.

 

Anche per il nuovo lavoro con il colore George Tatge usa la sua macchina fotografica prediletta, cioè il banco ottico Deardorff 13×18.

La Deardorff è una macchina mitica tra i fotografi professionisti. E’ una macchina grande, pesante e complessa da usare dato che non ha nessuno degli automatismi per leggere e definire l’esposizione ormai in dotazione a qualsiasi macchinetta. In più, chi la utilizza vede l’inquadratura capovolta. E quindi per forza deve lavorare lentamente, con la testa, con gli occhi e con il cuore.

Un banco ottico però offre la massima precisione e resa possibile in fotografia. Per tutto questo viene usata soprattutto in studio. Invece lui se la porta dietro e fotografa in esterni.

Per fotografare, appunto, la poesia del caso. Un caso che è cercato con occhio sapiente, anzi con due occhi; ma che sempre caso è.

Non perdete “Gerge Tatge, Il Colore del Caso”. Ne uscirete ispirati, toccati, e sì, colmi di gioia.

 

Margherita Abbozzo.

Tutte le fotografie sono state fatte da me in mostra. Quella di copertina è un dettaglio di George Tatge, Cenci Rossi, Prato 2013, courtesy dell’artista. “George Tatge, il Colore del Caso” è a Palazzo Fabroni, Pistoia, fino al 15 marzo.  Info pratiche qui. E alla pagina Fb @museicivicipistoia.

Beverly Pepper, RIP

 E’ morta Beverly Pepper, scultrice americana di casa in Italia.

Beverly Pepper, nata Beverly Stoll a Brooklyn nel 1922, scultrice, è morta quasi centenaria il 5 febbraio a Todi, suo paese d’elezione dagli anni Sessanta.

Beverly Pepper ha vissuto in Italia molto a lungo. Prima a Roma e poi in Umbria. Aveva cominciato a lavorare come pittrice, per poi evolvere verso il lavoro tridimensionale e diventare scultrice di opere imponenti realizzate con materiali e metalli vari, soprattutto in ferro e acciaio.

Le prime di queste opere andarono in mostra per la prima volta proprio in Italia, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 1962. Dell’Italia, dell’Umbria, e di Todi in particolare, Beverly Pepper si era subito innamorata, tanto da decidere di trasferircisi a vivere. A Todi aveva trovato una casa molto bella – un castello medioevale – e un grande studio. Dove ha lavorato per circa sessant’anni.

Beverly Pepper, Panoramica dello studio, 2000

E a Todi Beverly Pepper ha anche donato lo scorso settembre un intero parco di sculture. Con 16 suoi lavori sistemati in uno spazio situato tra le mura medievali della città e che collega il Tempio di Santa Maria della Consolazione con il centro storico.

Beverly Pepper appartiene alla generazione di artisti scultori come Richard Serra, David Smith, e Louise Bourgeois. Non è famosa come loro, ma dovrebbe esserlo. I suoi lavori sono nei musei più grandi del mondo, e ha fatto mostre in molti luoghi importanti.

Beverly Pepper, installazione Todi Columns e preparazione dei basamenti, 1979 Foto Bill Pepper

Tra questi c’è anche Firenze, dove ha esposto al Forte di Belvedere nel 1998.

Beverly Pepper Todi Columns a Firenze, 1999

Vicino a Pistoia poi, un suo grande lavoro è nella meravigliosa collezione Gori, a Santomato: lo Spazio teatro Celle, omaggio a Pietro Porcinai è un anfiteatro realizzato sfruttando un incavo del terreno.

Mentre all’Aquila dal 2018 Amphitheatre (foto qui sopra) è situato in un parco pubblico vicino alla Basilica di Collemaggio. Si tratta di un teatro all’aperto di 3000 mq. da lei donato alla città per il progetto “Nove artisti per la Ricostruzione”. Le due fotografie qui sotto invece documentano l’istallazione della sua mostra a Roma all’ Ara Pacis nel 2014.

In tutto il suo lavoro Beverly Pepper ha cercato quella relazione tra la scultura, lo spazio e il paesaggio naturale e storico che è al cuore della corrente Land Art.

Agli inizi della carriera lo faceva realizzando progetti ambientali. Utilizzava materiali come il legno, la paglia, l’erba, il fieno, la sabbia. Una volta passata ai metalli ha lavorato spesso con le officine Italsider di Piombino e poi con le fonderie a Terni. Le piaceva lavorare con gli operai “sporcandosi le mani” e stando sul pezzo.

I suoi lavori hanno dimensioni monumentali. Bisogna proprio entrarvi dentro fisicamente, interagire con loro. E sentire così il rapporto forte che ogni lavoro intavola con il paesaggio. Soprattutto, sentire la passione dell’artista per il ferro.

“Tutto nel mondo diventa lentamente ferro. Il ferro è ovunque, anche in una lacrima.”

R.I.P Beverly Pepper, 1922 – 2020.

 

Margherita Abbozzo.

Tutte le fotografie sono state trovate online; i crediti sono dati quando noti. Potete contattarmi per inserire i crediti mancanti.

 

 

 

 

 

 

Margherita Verdi, la fotografia e le sue “Impronte”.

Margherita Verdi è una fotografa fiorentina. La mostra “Impronte” alla Fondazione Studio Marangoni raccoglie e celebra adesso il suo lavoro.

Margherita Verdi fotografa dagli anni Ottanta. E “Impronte” presenta una bella selezione della sua lunga e coerente ricerca.

In mostra si vedono infatti immagini tratte da molte serie che Margherita Verdi ha esplorato negli anni. Si tratta di immagini sia in bianco e nero che a colori. Sia analogiche che digitali. L’allestimento poi, curato da Bärbel Reinhard, è molto elegante. E riflette una profonda conoscenza e comprensione del lavoro di Margherita Verdi.

Non per niente infatti Margherita Verdi ha lavorato per molti anni anche come direttrice della scuola di fotografia Fondazione Studio Marangoni, dove la stessa Reinhard ha concluso la sua formazione.

“Impronte” riflette così tutto un universo e un fitto intreccio di stima, affetti, ricerca, condivisioni e stimoli culturali, che riverberano in tutti i lavori di questa bella mostra. E che ben riflettono il percorso umano e professionale della fotografa.

Margherita Verdi infatti è sempre stata una femminista impegnata e una attenta partecipe alla vita sociale e politica. Tanto che la sua carriera di fotografa e il suo lungo e coerente percorso creativo iniziano collaborando con vari gruppi teatrali underground.

Questa “mini retrospettiva”, come l’ha definita Martino Marangoni, uno dei curatori, adesso mette in risalto proprio l’ampiezza e la coerenza del suo percorso creativo.

In mostra si vedono infatti lavori sui temi a lei più cari: gli orti botanici; l’archeologia industriale; gli animali di ogni forma e colore. E i luoghi sacri di varie religioni (una serie bellissima).

Il tutto è sempre trattato in maniera originale, allo stesso tempo personale e immediatamente riconoscibile.

Infatti, come ha scritto nel bel catalogo Roberta Valtorta, tutta l’opera di Margherita Verdi è percorsa “da un’interrogazione costante, insieme a una sorta di vagante incertezza sull’identità delle creature viventi che vediamo e sulla realtà stessa dei luoghi.

(…) Su tutto domina il mistero profondo dell’antico mondo degli animali e delle piante, esseri che ci hanno preceduti sulla terra”.

Lo sguardo di Margherita Verdi ci propone una messa a fuoco selettiva, spesso mossa, e quindi mutabile; cioè gentile, rispettosa dell’altro e mai perentoria. E’ una ricerca sperimentale aperta alle interpretazioni di chi osserva le immagini, e questo suggerire lasciando spazio agli altri mi sembra uno degli elementi portanti di tutto il suo lavoro.

Perchè Margherita Verdi è sempre stata fedele alla sua visione. Anche in anni in cui l’approccio alla fotografia si muoveva lungo strade molto diverse e lo stile documentaristico andava per la maggiore. Anni nei quali lei guardava invece a Duane Michals, Sarah Moon, Sally Mann…

Perchè lei, fotografa inizialmente autodidatta, come mi ha detto si è formata “sia seguendo lezioni di storia dell’arte di Masciotta all’accademia di Belle Arti a Firenze; che con Roberto Salbitani, con il quale ho perfezionato le tecniche di stampa in camera oscura, molto importanti in tutto il mio lavoro.”

“Alla Fondazione Studio Marangoni ho poi insegnato tecniche alternative di camera oscura nel corso triennale. La camera oscura è un’immersione in te stesso…è una terapia, bellissima!!” 

“Adesso uso le macchine a seconda dei progetti che voglio realizzare: camera digitale o Holga. Uso la Holga da tanti anni e per determinati progetti, dove la visione leggermente mossa mi sembra la più adatta a ricreare le atmosfere dei luoghi.”

“Se uso il digitale scatto a colori, ma poi quando elaboro il progetto decido se trasformarlo in bianco e nero, come è successo per l’ultimo progetto che sto portando avanti, Invisibili. Ho provato con il colore ma non mi sembrava idoneo all’argomento, e quindi l’ho trasformato in bianco e nero che per me adesso funziona”.

Intima coerenza e visione poetica: adesso “Impronte” offre l’occasione di apprezzare al meglio le immagini al tempo stesso eleganti, gentili e potenti di Margherita Verdi.

Margherita Abbozzo
Le fotografie della mostra sono mie, quelle dei lavori courtesy Margherita Verdi.

La mostra è aperta alla fsmgallery – Fondazione Studio Marangoni – in Via San Zanobi 19r a Firenze, fino al 21 marzo dal lunedì al venerdi con orario 15-19- sabato 10-13 o su appuntamento.

 

Art City, terza e ultima puntata

Art City ha riempito Bologna di arte contemporanea.

Concludo la lunga carrellata sulle tante mostre di Art City 2020 parlando di due mostre e di due artiste.

Perchè, si, a questa edizione di Art City partecipano più artiste che artisti! E un pensiero riconoscente vada allora alle Guerrilla Girls, che dalla metà degli anni Ottanta lavorano instancabilmente per bilanciare i disequilibri – chiamiamoli così – del mondo dell’arte.

Dunque, due donne, due mostre.

La prima, Sissi, è artista bolognese. E’ nata nel 1977, cioè un anno fatidico per la città, dove c’erano Radio Alice, Bifo, gli indiani metropolitani… Vestimenti è il titolo della sua personale ospitata a Palazzo Bentivoglio.

Prima di raccontarla, segnalo che l’ingresso alla mostra è presidiato dal bel lavoro di un’altra artista di casa a Bologna, e cioè Monica Cuoghi. Si tratta di un’opera neon che continua il suo celebre Pea Brain, la “paperella” nata nel 1986 (cioè guarda caso negli stessi anni delle Guerrilla Girls). Nello stesso cortile campeggia anche una scultura di Sissi, come si vede nell’immagine qua sopra, che preannuncia quanto ci aspetta all’interno.

Vestimenti è una grande istallazione dedicata a venti anni del lavoro di Sissi. Che dall’Accademia di Bologna è uscita alla fine degli anni Novanta, subito famosa grazie alle sue interessanti e divertenti performances, video, e fotografie.

Anche lei ha sempre lavorato sul e con il suo corpo. E pensare gli abiti come sculture è stato al centro del suo lavoro. Vestimenti, uno dei main projects di Art City, è una grande istallazione che raccoglie bizzeffe di queste sue creazioni.

 

Sono tutte coloratissime, addirittura fantasmagoriche. A cominciare dalla incredibile “gonna” realizzata con camere d’aria che le impediva di salire su un treno nella famosa performance del 1999.

In mostra ci sono abiti, sculture, abiti-sculture, sculture-abiti. Dire che è tutto rutilante è dire poco.

 

Al contrario del lavoro della seconda artista della quale parlo qui. E cioè di Eulalia Valldosera.

Artista catalana, classe 1963, per Art City ha un’installazione mozzafiato. Nave Nodriza (o Nave ammiraglia) è ospitata nell’affascinantissimo oratorio di San Filippo Neri, in Via Manzoni.

Un lavoro mozzafiato, lo ripeto. Indimenticabile. Tanto che non voglio sciuparlo descrivendolo a parole. Bisogna proprio immergersi fisicamente nella sua atmosfera aprendo tutti i sensi. Perchè Eulalia Valldosera lavora come una figura archetipica di guaritrice e ci incanta con suoni, luci e un’atmosfera inscindibile dal luogo dell’istallazione. Che è potente. E magica.

Segnalo soltanto che purtroppo l’istallazione, a cura di Maura Pozzati per Art City, rimane vedibile solo fino a stasera 26 gennaio 2020. Fidatevi: merita da sola il viaggio a Bologna.

 

Margherita Abbozzo, (3, ultima puntata). Tutte le fotografie sono state fatte da me.

 

Info pratiche:

Sissi, Vestimenti, rimane aperta per Art City fino al 19 aprile 2020 ed è a Palazzo Bentivoglio, in Via del Borgo di San Pietro, 1, a Bologna. La mostra è a cura di Antonio Grulli.

Occhio agli orari! Da venerdì 31 gennaio a domenica 15 marzo la mostra si può visitare il venerdì dalle 17.00 alle 20.00; il sabato e la domenica, dalle 12.00 alle 19.00. Mentre dal 20 marzo al 19 aprile le visite sono possibili solo su appuntamento. Per informazioni e prenotazioni: Caterina Pascale | info@palazzobentivoglio.org | T. 370 1249962

 

 

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