Ven 29 Mar 2024

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Disco della Settimana: Morrissey “Low In High School”

Non è facile invecchiare, soprattutto per rockstar dalla personalità così ingombrante e provocatoria come quella dell’ex frontman di un gruppo fondamentale come The Smiths. Low in High School è un disco con luci ed ombre, ma estremamente personale e per niente indulgente.

Il disco, uscito il 17 novembre 2017, è stato pubblicato dalla BMG, in collaborazione con la Etienne Records, l’etichetta di proprietà dello stesso Morrissey. Prodotto da Joe Chiccarelli e composto dallo stesso Morrissey, in collaborazione con i musicisti della sua band, l’album è stato registrato presso gli studi Fabrique di Saint-Rémy-de-Provence, nel sud della Francia e in quelli romani del Forum Music Village, di proprietà di Ennio Morricone (è di quei giorni l’incidente con le nostre forze dell’ordine).

L’ambum è stato anticipato dai singoli Spent the Day in Bed e I Wish You Lonely.

Il passato con cui Morrissey si deve controntare non è certo poco impegnativo “considerato tra i più importanti precursori e innovatori della musica indie e britpop, Morrissey è ritenuto uno dei più grandi parolieri della storia della musica britannica e i suoi testi sono divenuti oggetto di studio accademico. Nel 2007, il quotidiano inglese Daily Telegraph l’ha inserito nella classifica dei cento geni viventi. Nel 2008 è stato invece annoverato tra i cento grandi cantanti di tutti i tempi, in una classifica stilata dalla rivista Rolling Stone” (wikipedia), artista per cui hanno aperto i concerti anche Lou Reed e Patti Smith, l’autore che persino Bowie scelse per una cover, eppure il restare all’altezza della sua fama di provocatore controcorrente lo sta portando sempre più spesso ad incrociare il percorso delle destre più reazionarie o islamofobe. Alcuni interpretano le posizioni controverse dell’artista come una capacità di cogliere il tormento sociale della working class ponendo domande più che suggerendo risposte.

Musicalmente è un album discontinuo ma non privo di picchi; rotto il sodalizio con dopo il divorzio con Alain Whyte (cui si doveva il risultato dei precedenti lavori) Stephen Patrick Morrissey ha costruito una band perfettamente allineata con le esigenze del musicista, a suo modo questo è un album fortemente ispirato e “centrato” sull’umore del momento storico.

Ma vediamo come è stato accolto l’album dalla stampa specializzata italiana.

Così ne parla Rockol:

“Il tempo non è gentiluomo. Di regola ci fa diventare più brutti, grossi e spelati. Anche acidi e malmostosi. Brontoloni e disillusi. Ok… che male c’è? Di sicuro si perdono lo smalto e la magia dei 20 anni, ma quelli – si sa – sono molto di frequente fuochi di paglia. Per cui ben venga, nel bene e nel male, anche la poetica/poesia del declino. In cui Moz è gran maestro, non possiamo dire altrimenti, e lo dimostra col suo nuovo album solista.

Il re del pop indie in salsa Brit, l’artista che ha cresciuto generazioni di musicisti e fan a colpi di testi che facevano male come biglietti di addio lasciati sul comodino, eppure creavano una dipendenza più forte di qualunque sostanza conosciuta, torna alla soglia dei 60 anni e non ha il minimo timore di mettersi a nudo come quando ne aveva 40 di meno. La pelle è diversa, i capelli, il girovita e il tono muscolare idem… eppure la forza e il coraggio di mostrarsi per ciò che è non gli vengono a mancare neppure per un secondo.

È innegabile, inoltre, che (come a ogni sua nuova uscita) continui a balzare alla mente il pensiero che tutto ciò sarebbe ancora più bello e struggente con Johnny Marr alle chitarre: per forza…  sono passati 30 anni dalla fine degli Smiths, ma non riusciamo a far pace col fatto che la diade ormai è composta da due monadi e il jolly Morrissey/Marr non lo vedremo più all’opera, nonostante loro due siano da sempre complementari. Ecco, eppure “Low In High School”, al netto di queste considerazioni oziose (e con il massimo rispetto per l’ottimo Boz Boorer), funziona. E molto meglio della proposta precedente di Moz.

A Morrissey, come si dice a Roma, rode pesantemente il culo per mille motivi. E i suoi testi sono lo specchio di tali rodimenti: ci infila politica, società, sesso, pulsioni antimonarchiche, relazioni sentimentali marce o troppo complicate, ribellione all’equazione produci/consuma/crepa, antimilitarismo, disprezzo per le forze dell’ordine, dandysmo strafottente, la tipica autocommiserazione tragicomica/autoironica morrisseyana e commenti tranchant sul genere umano (leggi misantropia con tanto di turbo e marmitta truccata). Il tutto su basi musicali 100% Moz, il che vuol dire che ci troviamo di fronte a melodie morbide e variegate, chitarre capaci di tagliare o di accarezzare come guanti di cachemire, escursioni nel Brit-pop, incursioni nella new wave/post punk, raid nella tradizione popolare… un impasto sonoro che crea una sorta di empatia immediata, quasi ingenua e istintiva, che peraltro cresce con gli ascolti.

Insomma, sarai anche diventato un brontolone, come dicono, ma – caro Moz – ben vengano i brontolii se si traducono in album ancora così solidi e piacevoli.”

Così se ne parla su Ondarock:

Ho preso una decisione: questa recensione dell’ultimo disco di Morrissey non proverà in alcun modo a risolvere la diatriba tra sostenitori e detrattori di “Low In High School”. Sì, perché tutta l’attenzione si concentrerebbe su un’unica questione di fondo: il disco è bello o è brutto?
A questo punto della carriera dell’ex-Smiths cosa importa se un album sia bello o brutto, la sua discografia solista è piena di dischi ottimi ma anche di cadute di stile, per non parlare di alcune opere che ancora giacciono nel limbo in attesa del perdono. Oltretutto al musicista e autore di Manchester non fotte un cazzo di cosa io o altri scriveremo di questo suo ultimo album, altrimenti avrebbe messo a frutto quei pochi consigli sparsi tra le innumerevoli recensioni che hanno accompagnato il precedente “World Peace Is None Of Your Business”.
Che Morrissey non si curi neppure dei suoi fan più fedeli, lo si evince poi dalla scelta di non assecondare le continue richieste del pubblico di ritornare musicalmente ai fasti e alla leggiadria degli esordi, al contrario dopo il divorzio con Alain Whyte la scrittura si è ancor più appesantita e imbolsita, quasi come se l’autore volesse trasferire in musica la confusione politica e sociale che è infine il cardine creativo di “Low In High School”. L’unicità di un personaggio come Morrissey è conclamata dall’impossibilità di poter separare la creazione artistica dal profilo umano dell’autore, le stesse reazioni dell’ascoltatore sono vittima dell’empatia, spesso temporanea e fugace.

Le tentazioni politiche che soggiacciono alle undici canzoni del nuovo album sono preminenti come non mai, ma non stupisca l’apparente tono reazionario di alcune esternazioni, stiamo parlando di colui che senza timore ha urlato il suo odio per la Thatcher nella canzone “Margaret On The Guillotine”: che gli valse perfino una perquisizione e un’indagine da parte della polizia britannica. Non dimentichiamoci che anche l’Fbi mise sotto torchio Morrissey per le sue dichiarazioni contro Bush (definendolo un terrorista che meritava di morire), inoltre il musicista inglese in passato aveva assunto una bizzarra posizione ideologica nella canzone “We’ll Let You Know”, dove viltà e orgoglio si alternavano nel suo ambiguo tratteggio psicologico di un violento hooligan, inoltre gli è stata perdonata anche l’incitazione a uccidere i dj nel brano degli Smiths “Panic”, un’affermazione che di li a poco gli è valsa il dispregio del popolo rave.

Il sostegno politico per la candidata anti-islam Anne Marie Waters e le esternazioni positive nei confronti di Marine Le Pen e Nigel Farage hanno creato senza alcun dubbio molta avversione tra la critica inglese, mentre il recente incidente diplomatico con la polizia italiana ha suscitato polemiche e accuse di arroganza e presunzione, che non hanno giovato alla sua immagine presso il pubblico nostrano. Forte di queste considerazioni e premesse mi accingo ad affermare senza possibilità di smentite che l’ultimo album del musicista britannico è il suo più ambizioso, controverso e confuso, un challenger da luna park che lascia storditi e stupiti a ogni giro d’ascolto. 
Quando le note di “My Love, I’d Do Anything For You” riempiono il vuoto che fa seguito ai succitati pensieri, tutte le argomentazioni ideologiche si fanno amabilmente accantonare, l’esuberanza del possente glam-hard-rock-sinfonic (azzardo un paragone con Meat Loaf) non lascia dubbi, “Low In High School” è un album  indisponente e ambiguo, ogni brano offre una doppia chiave di lettura: una piacevole e una disturbante.

Al di là delle feroci critiche inglesi (quella di The Quietus include cento volte la parola fucking), questo è l’album più ricco di potenziali singoli da classifica, a partire dalla deliziosa “Jacky’s Only Happy When She’s Up On The Stage” che si avvale di un assolo di tromba, oltreché del testo più ironico e riuscito.
L’altro singolo che ha anticipato l’album, “Spent The Day In Bed”, non solo è una delle canzoni più melodicamente affabile degli ultimi anni, ma nel contesto dell’album suona ancor più incisiva, graziata dalla stessa leggerezza di “I Wish You Lonely”, un altro brano che aveva anticipato l’altra peculiarità timbrica dell’album, ovvero quel delizioso suono di tastiere stile Roxy Music, che insieme all’uso più intenso dell’orchestra e dei fiati sono la vera novità timbrica di questo progetto. 

A questo punto diciamo la verità: quello che è forse più duro da accettare è che anche Steven Patrick Morrissey sia giunto alla soglia della maturità, e sono senza dubbio i suoi 58 anni i veri protagonisti delle acrobazie da crooner della romantica “Home Is A Question Mark” (forse il brano migliore dell’album), e senza dubbio sono la fonte dell’ambiziosa “I Bury The Living”, la quale scivola verso toni gotici da rock-opera leggermente pretenziosi.
Che “Low In High School” sia un disco bifronte lo si evince anche dalla netta separazione tra le due facciate, infatti con il delicato e notturno duetto tra piano e voce di “In Your Lap” si entra in una dimensione più crepuscolare, quasi notturna e a tratti esotica, con atmosfere che a tratti ricordano alcune cose di Marc Almond era-Marc and The Mambas, come la già citata “In Your Lap” e il tocco di flamenco di “The Girl From Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel”. Ed è proprio da questo tentativo di rigenerazione che nascono alcune interessanti intuizioni liriche dell’ultimo Morrissey, come l’amabile “All The Young People Must Fall In Love”, una ballata acustica alla “Give Peace A Change” che frantuma il tono serioso del disco aprendo le porte all’altra piccola delizia melodica dell’album, ovvero il tango di “When You Open Your Legs”, sottolineato con intelligenza e gusto da orchestra e fiati.
Meno riuscito il pasticcio di synth di “Who Will Protect Us From The Police?” che come nella più intensa “Israel” resta leggermente schiacciata dal peso delle parole.

Oscurato da una produzione a volte sovrabbondante, “Low In High School” resta comunque uno dei capitoli più difficili da digerire del suo catalogo, ma mentre per album come “Kill Uncle” lo stesso problema era generato da un mancanza di sinergia tra musica e testi, qui il discorso è molto diverso.
Mai come ora Morrissey sembra  a suo agio nel raccontare le sue perplessità, la band è perfettamente allineata con le esigenze del musicista e a suo modo questo è un album fortemente ispirato, e forse non va sottovalutata la sua capacità di cogliere in anticipo il tormento sociale della working class.
Piaccia o non piaccia, questa strisciante deriva reazionaria va osservata con attenzione e senza inutile sarcasmo, e forse “Low In High School” contiene più di una chiave d’accesso e di lettura del nostro turbolento presente ideologico.

Noi facciamo nostra la chiosa dell‘articolo di Repubblica: “Eccola qui, quindi, la situazione di Morrissey nel 2017. Uno zio burbero con squarci di inarginabile romanticismo. Un grande vecchio che si ostina a non vivere del suo passato. Non si sa cosa sarebbe più ridicolo: un uomo di mezza età che sbraita sconclusionato degli affari esteri dell’Inghilterra o un depresso cronico che si lamenta ancora di essere bullizzato o peggio ancora ignorato. È un cul de sac in cui Morrissey si è messo con le sue mani anno dopo anno, di fatto autorizzando quell’identificazione tra artista e personaggio delle sue opere che neanche più a Tarantino e Houellebecq viene rimproverato con tanta veemenza. E in questo vicolo cieco Stephen Patrick Morrissey, 59 anni, ci sguazza ancora che è una meraviglia irritante come l’arte, in fondo, è anche giusto che sia.”

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