Il Coronavirus come ‘autobiografia di una Nazione’

Il modo in cui ci stiamo raccontando in questi giorni ci dice quello che pensiamo di noi, non quello che realmente siamo. E questo rischia di travolgerci.

‘Il fascismo è l’autobiografia della Nazione’ diceva Piero Gobetti. Dunque un modo di raccontarsi. Un modo ‘bello’, perché a-critico. Il grande intellettuale considerava come: “l’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo” fossero “espedienti attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure”.

E dunque il fascismo come risposta infantile alle difficoltà della contemporaneità.

Il coronavirus, come il fascismo, ci impone uno stato d’attenzione (d’eccezione, potremmo dire): limitazione delle libertà personali, messa in discussione di alcuni principi cardine della nostra democrazia nel nome della disciplina o dell’autodisciplina necessaria alla situazione di particolare gravità.

E’ dunque interessante vedere come ci stiamo rappresentando, in quanto italiani, durante questo periodo così particolare. Alla fine quello che emerge è una sfiducia sostanziale dell’italiano verso l’italiano stesso. E la mancanza di rappresentazione della normalità di una Nazione che, in realtà, sta reagendo ordinatamente rispetto ad una situazione del tutto nuova ed assolutamente inedita.

Prendiamo ad esempio le immagini di assembramenti presso le piste da sci, o i bar affollati, la movida che non si interrompe: comportamenti certo deprecabili, da stigmatizzare senza remore in un momento come questo, in cui la riduzione dei contatti interpersonali è l’unica efficace arma contro la riduzione del contagio che rischia di sovraccaricare le strutture sanitarie, innanzitutto d’emergenza con tutto quello che ne consegue.

Ma quante sono davvero le persone che si sono lasciate andare a questi comportamenti? 200Mila? 1 milione? Due? Fossero anche sei, e sono tanti, sarebbe comunque solo il 10 per cento della popolazione. Certo sempre tanti, troppi. Ma, non raccontiamoci dunque un Paese che non esiste. Perché il gioco potrebbe non valere la candela.

Gli italiani hanno dimostrato di essere in grado di superare prove difficili con grande spirito. A me pare che in questo momento si stia facendo altrettanto. Sarebbe anzi interessante che proprio gli opinionisti comincino a comportarsi come la stragrande maggioranza della popolazione. Prendendo precauzioni (che poi sono quelle della deontologia professionale) e non raccontando un Paese che non c’è. Non inseguendo il retroscena, lo scoop, il ‘lato nascosto’ (che spesso è solo un nobile modo per definire una semplice panzana) pur di attrarre qualche lettore in più. Una maggiore visibilità.

La mostrificazione della realtà è un brutto antico vizio degli analisti. Ma se la rappresentazione della realtà condiziona le realtà stessa, allora è bene riflettere su questo. Oggi più che mai.

Spesso, ed anche in questo momento, gli italiani mi sembrano migliori di chi li racconta e di chi li governa.

Domenico Guarino

Regionali: vince la buona amministrazione, perde Salvini

Le elezioni regionali ci consegnano un quadro politico rivoluzionato, con tendenze che, se confermate, rischiano di determinare un vero e proprio terremoto nel Governo e nel Paese. L’analisi di Domenico Guarino

Per un volta il quadro appare assolutamente chiaro e difficilmente contestabile. Nelle elezioni regionali in Calabria ed Emilia ci sono alcuni sconfitti certi un  paio di vincenti e qualche rimandato a settembre. Pardon, a maggio.

Il principale sconfitto, inutile girarci intorno, è chiaramente Matteo Salvini. Diciamo Salvini e non la Lega,  tale è stato il tasso di personalizzazione dello scontro politico-elettorale che il leader del (ex) Carroccio ha impresso a questa tornata regionale, soprattutto in Emilia. E’ stato Salvini a caricare il voto di un significato politico nazionale. E’ stato lui che, evidentemente immemore della lezione renziana, ha promosso un referendum sulla sua persona, uscendone sonoramente battuto.  E’ stato lui ad oscurare candidata ed alleati. Di fronte a queste evidenze, che Bergonzoni finisca a 8 punti da Bonaccini (altro che testa a testa…) e che in Calabria vinca Forza Italia, per il nostro Matteo Padano non è proprio un buon segno. Anzi. Del resto lo si era capito quando a mezzanotte e trenta sì è presentato di fronte alla telecamere, insolitamente dimesso ed insolitamente ecumenico, con un commento di una banalità tale che anche alle elementari avrebbero saputo fare meglio.

Se si considera il voto di lista la debacle si fa addirittura più evidente: rispetto alle europee di meno di un anno fa, la Lega nelle regionali in Emilia perde il 2% oltre al titolo di primo partito, ed in Calabria addirittura il 20.

Sconfitto, anzi, disintegrato, il Movimento 5 Stelle che, se è vero che sui territori ha sempre avuto vita difficile, in Calabria perde il 20% ed in Emilia il 13, condannandosi ad una marginalità politica sempre più evidente, frutto di scelte reiteratamente errate, se non scellerate. Compresa la pervicacia nel non voler ripetere a livello locale le alleanze di Governo. Con gli Stati Generali alle porte e i vari Di Battista che scalpitano vendetta, anche a Roma, statene pur certi, gli effetti di questi ‘spifferi’ regionali si faranno sentire. Credo alla fine, nel senso di un rafforzamento di Conte e della sua strategia di alleanza nell’alveo del Centrosinistra; ma le fibrillazioni e le turbolenze, anche gravi, non mancheranno.

Si condanna alla residualità anche la sinistra cosiddetta radicale che raccoglie le briciole delle briciole, riportando nelle urne gli effetti di una incapacità oramai parossistica di rinnovare la propria identità, ovvero di adeguare il proprio pensiero e le proprie strategie alla nuova fase politica che si è aperta da qualche anno questa parte. Lo ‘splendido isolamento’, teorizzato e praticato con orgoglio e convinzione,  alla fine ha prodotto quello che si poteva prevedere: la riduzione a percentuali da prefisso telefonico o poco più. Una triste realtà che dovrebbe far aprire delle riflessioni anche in vista dei prossimi appuntamenti regionali, a cominciare dalla Toscana. Ma siamo quasi certi che questo non accadrà.

E veniamo ai vincenti.

Innanzitutto vince la buona amministrazione. Così come nelle recenti amministrative, in un’epoca profondamente de-ideologizzata, l’elettore va sul concreto e premia chi dimostra di saper governare bene  i territori. Si vota consapevolmente sulla qualità della propria vita e non su orizzonti ideali che sono visti come eccessivamente lontani se non gravosi. Che sia un bene o un male non importa: conta che è così. E la politca, come dovrebbe essere noto,  si fa con ciò che c’è, non con ciò che si vorrebbe ci fosse. Così alle regionali in Emilia conferma chi ha governato finora, mentre in Calabria si prova un riscatto dopo gli ennesimi scandali.

Vince sicuramente il Pd di Zingaretti che, nonostante le scissioni, in Emilia guadagna, oltre al Governatore, 3 punti percentuali sulle recenti europee, riconquistandosi la palma non solo simbolica di primo partito. E in Calabria, nonostante i recenti scandali, contiene il travaso di voti verso le liste civiche collegate a Callipo. Ora Zinga, paziente tessitore che rifugge dal palcoscenico ma evidentemente conosce l’arte del compromesso esatto, può rifiatare in vista delle prossime sfide, rafforzato dal voto e, soprattutto, dagli ‘umori’ che questo voto regale.

Vince soprattutto una visione positiva dell’Italia, che contesta la narrazione catastrofista del centrodestra salviniano. Un’Italia che vuole credere in se stessa e nel futuro. Un segnale chiaro, da coltivare con passione ed entusiasmo in quanto segna una novità significativa. Forse la più significativa. Merito ancora una volta del protagonismo civico che, come già ad inizio 2000, prova a rianimare, forse in maniera arruffata, forse con poca coerenza, ma tuttavia in maniera energica, una politica esangue o ripiegata su se stessa. Che si chiamino Sardine o altro, il nocciolo sta lì.

Poi ci sono i non pervenuti. Quelli rimasti alla finestra. Come Italia Viva, innanzitutto. Per Renzi and co, il peggior risultato possibile: la non partecipazione (una mossa apparentemente furba) lo ha reso un corpo estraneo alla contesa. Il rafforzamento della leadership di Zingaretti, per mezzo della vittoria netta di Bonaccini, renderà più ardua la partita  nel campo del centrosinistra, allargando il fossato tra gli ex rimasti nel Pd e il nuovo partito Renziano.  Si aspettano naturalmente  esiti sul dibattito romano. Con la certezza però che al momento IV non ha la forza elettorale e di consenso per far saltare il tavolo. Barufferà, statene certi, ma con minore forza. A meno che la volontà suicidaria non prevalga.

Ora tocca alla Toscana con due incognite. La prima è che il Giani rafforzato dall’esito delle elezioni in Emilia, creda di aver già vinto e non si concentri sul miglioramento dell’azione di Governo. La seconda riguarda il centrodestra: avrà la forza Salvini di imporre a questo punto regole e protagonisti della campagna elettorale? O dovrà scendere a più miti consigli soprattutto con gli alleati? Vedremo. Domani, come sempre in politica, è un altro giorno.

 

DOMENICO GUARINO

Belotti (Lega): La citofonata di Salvini? Ha fatto bene: era un noto spacciatore”

All’indomani del lancio della campagna elettorale del candidato del csx Eugenio Giani, abbiamo fatto il punto sulle regionali con il commissario della lega in Toscana, Daniele Belotti. “Giani ha usato impropriamente il vessillo della Toscana, lo denunceremo”

Dal ritardo nella definizione di un candidato, ai rapporti con gli alleati ed all’interno della Lega, alla sanità toscana ( ‘è allo sfascio’), al polemica fiorentina-Atalanta, fino all’ultimo episodio che ha visto coinvolto il leader della Lega Matteo Salvini: all’indomani della candidatura di Eugenio Giani, abbiamo fatto il punto sulla prossima campagna elettorale con il coordinatore della Lega Toscana Daniele Belotti.

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Giani, ovvero l’elogio della perseveranza (e della cara , ‘vecchia’ politica)

Ora 9.45 del 20 gennaio 2020, alla casa della Cultura di San Miniato Basso, Pisa,  va in scena quello che non ti aspetti: una riedizione delle campagne elettorali di qualche lustro fa. Forse non proprio Prima Repubblica, no,  ma di certo qualcosa che non vedevamo ( e non sentivamo) da anni.

La sala che ricorda una vecchia balera, scenografia scarna , pubblico casual lontano anni luce dal galmour in stile Leopoldino cui il PD ci aveva ultimamente abituato, luci effetto neon, sedie di plastica non griffata, il caldo della calca che si ammassa per ascoltare.  Manca il fumo, perché oggi le leggi lo vietano, ma se non ci pensi abbastanza puoi immaginare di essere ripiombato nel 1992 o giù di lì. Niente effetti speciali, un proiettore che viene rinominato maxischermo con uno slancio di generosità, microfoni gracchianti, il chiacchiericcio in sala, il video che non parte, la colonna sonora che rimane in sottofondo, le generose pacche sulle spalle di chi fatica nella politica da anni. Tra il pubblico qualche volto noto, tanti capelli grigi, amministratori di ogni risma, le sempiterne  seconde linee rimaste tali perché non hanno mai saputo o probabilmente voluto azzardare un passo in più, mestieranti dell’amministrazione reduci dal lavoro quotidiano. Zingaretti ha mandato il giovane Furfaro, Nardella la sua vice (Cristina Giachi), Renzi invece il fido  Bonifazi.

Sul palco un uomo di mezza età, provato da una giornata vissuta  sotto i riflettori, ma non vinto, che snocciola un’ora di intervento monotonico, senza sussulti, pacato, argomentato, in alcuni passaggi dotto, molto concreto, con continui rimandi alla vita reale. Un discorso d’altri tempi, infarcito di considerazioni sulle tecniche dell’amministrazione e della legiferazione, sulla conoscenza del territorio in tutti i suoi anfratti più reconditi, senza fronzoli e senza particolari slanci. Un discorso da ragioniere della politica più che da leader carismatico. Il richiamo quasi ossessivo alla squadra, al noi, la correttezza formale e sostanziale, nessuna offesa né per gli avversari nè vezzeggiamenti  per gli amici. Niente battute ad effetto, nessun ammiccamento al pubblico, nessun saliscendi retorico: solo un sobrio, argomentato,  elenco di problemi e di possibili soluzioni. Certo, non esaustivo, non del tutto convincente, ma dannatamente, banalmente concreto.

Lontano dal set televisivo costruito per lui dai guru della comunicazione ai piedi della torre di Federico sferzata dalla tramontana, Giani si mostra per quel che è: un uomo che ha costruito la sua carriera politica sulle capacità amministrative e sulla perseveranza.  Dopo anni di ‘non ora’, si è preso la sua chance e non la molla. con la tenacia di sempre. Abituato ad incassare, e ad uscire continuamente dall’angolo. 

Se l’è presa semplicemente perché l’ha voluta e ci ha creduto più di altri. Sopravvivendo all’endorsement di un Renzi già  sulla strada di abbandonare il Pd, alle tumultuose riunioni, alle telefonate segrete, ai patti indicibili, ai caminetti, alle tentazioni degli avventurieri. Nei mesi trascorsi da giugno ad ora, il suo nome si è via via  rinforzato anche e soprattutto grazie ai veti incrociati dei possibili concorrenti. Giani c’era. Come c’è sempre stato. Ed essendoci all’inizio come alla fine, alla fine la scelta di un partito alla prese con problemi più grandi  è caduta su di lui. Un ‘gentiluomo’ della politica, dai modi cortesi, preparato, senza particolari guizzi, piacente ma non piacione,  convinto delle sue idee al punto tale che non sembra ossessionato dall’idea e dalla missione di convincere per forza anche te. E che alla fine l’ha sputata.

Nella prima Repubblica i politici in gran parte si comportavano così. Alcuni di loro erano davvero così. Oggi una cosa del genere risulta straniante. Un improvviso salto spaziotemporale verso qualcosa che non c’è più. O che non c’è ancora. Tutto questo sarà produttivo in termini elettorali? Basterà per battere la destra asservita ai toni slabbrati delle piazze salviniane e convincere la sinistra attratta dallo  scanzonato giovanilismo delle Sardine? E’ di questo che ha veramente bisogno la gente? Di competenza, di lavoro, della ‘fatica, del sudore delle carte, del lavorio politico quasi artigiano?

Nell’epoca dei selfie compulsivi e dell’estetica social, in cui le questioni etiche si risolvono a colpi di post e di hastag, l”uomostraordinariamentenormale’ Eugenio Giani riuscirà a sopravvivere alla campagna elettorale indenne? Riuscirà a spuntarla? La gente, quella con la G maiuscola, vuole questo?

Presto per dirlo. Intanto ci godiamo la novità. Che poi tanto nuova non è. E forse è anche bene così.

DOMENICO GUARINO

Amazon si ‘compra’ anche le edicole

Il colosso delle vendite on line stringe accordi con gli editori per utilizzare le edicole come punti di smistamento e ritiro dei pacchi in consegna. Ma c’è chi dice no. ASCOLTA IL NOSTRO SPECIALE

Le edicole stanno scomparendo. I numeri di Unioncamere sono impietosi: nel 2019 abbiamo 14.626 edicole in Italia, 3.733 edicole in meno rispetto a 10 anni fa. Il calo in termini assoluti è maggiore in  Lombardia con 2.370, seguita da Lazio con 1.664 ed Emilia Romagna con 1.329. La scomparsa delle edicole, però, riguarda tutte le regioni. In Toscana, ad esempio, se ne sono perse 377 in 10 anni. A contare soprattutto  il calo delle vendite di giornali. per questo si cercanmo nuove strategie.

E intanto Amazon fa ‘incetta’ di spazi.

Un fenomeno positivo?

ASCOLTA LO SPECIALE A CURA DI DOMENICO GUARINO

 

 

“La Fabbrica che non volle chiudere”: presentazione alle ore 17 presso La Feltrinelli

Oggi, venerdì 6 dicembre, ore 17 presso la Feltrinelli in via De’ Cerretani 40r, ci sarà la presentazione del libro ‘La Fabbrica che non volle chiudere’. Un racconto sulla vicenda della fabbrica Bekaert di Figline Valdarno che sarà presentato dai due autori, Domenico Gaurino e Daniele Calosi. L’ingresso è libero, a moderare la giornalista Chiara Valentini.

A giugno del 2018 la multinazionale Bekaert decide di chiudere lo stabilimento di Figline Valdarno (Fi) mandando a casa i 318 lavoratori. Da quel momento ‘la Fabbrica’ diventa l’epicentro di una vera e propria epopea popolare che vede al centro la lotta degli operai e la solidarietà dell’intera comunità. “La fabbrica che non volle chiudere” è il racconto di questa straordinaria storia di militanza, dignità ed impegno civile.

Un romanzo che attraverso la cronaca e le riflessioni dei protagonisti, dà voce ai sentimenti, alle paure, alle speranze, ai pensieri di chi quella vicenda ha vissuto in prima persona. “Una vicenda da ascoltare più che da leggere -dichiara Daniele Calosi, segretario FIOM Firenze- che mette in luce l’assenza di una politica industriale per il Paese, di una classe imprenditoriale degna di questo nome e soprattutto l’assenza di protezione sociale dei lavoratori che, abbandonati al loro destino, provano persino a costruirsi da soli una soluzione” . Il libro si avvale della prefazione del segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, e della postfazione della segretaria della Fiom nazionale, Francesca Re David.

“Quel che appariva, con forza, sullo sfondo del racconto giornalistico era che con la Bekaert, insieme con i lavoratori della fabbrica, si era mossa un’intera comunità, la quale aveva assunto quella vicenda come simbolo di una Resistenza contemporanea ai meccanismi perversi della globalizzazione. Mi convinsi allora che la chiave fosse in questo, nel restituire cioé quel senso di pluralità ed insieme di drammaticità (nel significato più propriamente teatrale del termine) quasi epica che quella vicenda emanava. Il libro che avete tra le mani è appunto il tentativo di dare forma concreta a questa intuizione” dall’introduzione di Domenico Guarino.

“In un momento in cui la nostra storia, la storia delle lotte sociali e delle conquiste sindacali, tende a essere emarginata, a non fare più parte della cultura e del sentire profondo del Paese, è importante che la nostra organizzazione, il sindacato, si dedichi a lasciarne traccia” dalla prefazione di Maurizio Landini.

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