Gio 28 Mar 2024

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CREAM OF THE CROP: Il meglio del 2017

Questi i dischi che Round Midnight ha scelto tra le uscite dell’anno appena trascorso. Sono quelli che ci sono più piaciuti o che ci sono sembrati più importanti tra i moltissimi usciti nel 2017.

Per comodità, e per darvi una panoramica più ampia possibile, li abbiamo divisi in tre sezioni (gli Internazionali, i Made in Italy, e i Beautiful Ghosts, ovvero ristampe imperdibili e riscoperte inedite) e per ciascuna ve ne abbiamo selezionati 10.

Iniziamo dalle uscite internazionali

Angles 9: Disappeared Behind the Sun (Clean Feed)

 Arriva dalla Scandinavia la formazione diretta dal sassofonista Martin Kutchen, nata raggruppando alcuni dei più interessanti musicisti Svedesi (e un Norvegese). Una musica che respira e emana sapori che sanno, di volta in volta, di Africa, di Balcani o di certe cose di Mingus, di Carla Bley, dei Brotherhood of Breath o della prima Liberation Music Orchestra. Negli anni si sono allargati, passando dal sestetto iniziale agli attuali nove elementi, con due sassofoni, tromba, trombone, piano, vibrafono e ritmica (quella dei Fire!: Johan Berthling e Andreas Werlin). Un bel contrasto: musiche bollenti, urlate e laceranti provenienti da terre di gelo, ghiaccio e silenzio. Giunti al loro sesto album gli Angles 9  rimangono una delle più belle realtà europee.

 

 James Brandon Lewis: No Filter (BNS)

 Giunto a 33 anni James Brandon Lewis si conferma uno dei migliori sassofonisti delle ultime leve. E conferma anche di prediligere per i suoi gruppi la formula del trio. Quello nuovo con Luke Stewart e Warren G Crudup III non è blasonato come quelli dei due album precedenti ma se la cava alla grande e sta crescendo ulteriormente grazie alle molte date dal vivo della band. Qualche ospite aggiunge colori alla tavolozza del disco, in particolare nella sognante “Y’all Slept” con la chitarra di Anthony Pirog e le rime di  P.SO the Earth Tone King.

STEVE COLEMAN’s NATAL ECLIPSE: MORPHOGENESIS (Pi-Recordings)

Morfogenesi: racconta Wikipedia che, in biologia, è la fase dello sviluppo embrionale corrispondente all’insorgenza della forma del corpo e dei suoi organi. Oppure (in geologia) il risultato dei processi che modellano i rilievi terrestri. Optiamo per la prima, nel caso del nuovo disco di Steve Coleman. Che torna dopo un paio di anni di assenza alla testa del nuovo progetto Natal Eclipse, ispirato questa volta, oltre che dalle predilette materie scientifiche, anche dal pugilato, quella “nobile arte” che (a partire da Miles Davis, Red Garland e Screaming Jay Hawkins e tanti altri) ha sempre avuto forti connessioni con la musica e cultura afroamericana. Rispetto ai ventuno musicisti utilizzati nel precedente album qua l’ensemble si asciuga notevolmente fino a otto elementi, alcuni già insieme a Steve Coleman da diversi anni, comunque quasi tutti già insieme nell’organico di “Synovial Joints”. Le novità stanno nell’arrivo del pianista Matt Mitchell, che si fa sentire, e soprattutto nell’assenza nell’organico del gruppo di un batterista, un ruolo che è sempre stato centrale nelle vari progetti musicali di Mr.Coleman fin dagli inizi. Qui è sostituito da un percussionista classico, che si aggiunge all’ottetto in alcuni brani ma si limita a un lavoro di coloritura, contrariamente al ruolo propulsivo che normalmente hanno le percussioni  nella musica di Steve Coleman. Il ritmo è un poco più sottotraccia stavolta ma la musica di Coleman non perde affatto slancio e forza propulsiva anche nella nuova versione. E, pugilisticamente parlando, nel disco ci sono diversi jab da schivare per non farsi mettere al tappeto da una musica bella e complessa come questa. O altrimenti, a scelta, si può abbassare la guardia e farsi mettere al tappeto. Col sorriso sulle labbra. La bellezza abita ancora qui.

 

Diamanda Galas: At Saint Thomas the Apostle Harlem + All the Way (Intravenal Sound Operations)

 Diamanda Galas fa al solito le cose a modo suo e, assente dal mercato discografico da quasi dieci anni, torna sulla scena con due album in uscita lo stesso giorno. Il primo testimonia i concerti della scorso anno per la Red Bull Accademy, una performance che incasella idealmente una serie di “Death Songs”, come li chiama Diamanda, con testi che partono da Cesare Pavese (“Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”) e prosegue con un Ayler, due Jacques Brel ed altro ancora. L’altro, in parte dal vivo in Europa e in parte inciso in studio (da notare che le ultime cose in studio d’incisione la nostra dark lady le aveva incise più di vent’anni fa con John Paul Jones, poi tutte incisioni live) contiene tre standard killer, un blues un country e un Monk.

In entrambi Diamanda Galas, al solito, da sola, voce e pianoforte. Lei è così: urticante, lacerante,  splendidamente e disperatamente destinata a fare razza a se: o la si ama o la si detesta, senza mezze misure. Forse questi due album non sono necessariamente le sue cose migliori, forse la formula è la stessa ormai almeno da “The Singer”, ma la grande signora è ancora tra noi. E questo già ce la fa scegliere tra i dischi dell’anno da non perdere. Difficile scegliere tra i due dischi: sono due salti nel maelstom e nelle tenebre.

Noi ci buttiamo su “All the Way”, se non altro perchè contiene una raggelante versione di “Round Midnight”, che abbiamo più volte utilizzato quest’anno come sigla di apertura in trasmissione.

Bentornata Lady Galas.

 

Jazzmeia Horn: A Social Call (Prestige)

E’ nata una stella: Jazzmeia Horn, 26 anni, texana, sbarcata a New York a 18 anni, vincitrice un paio di anni fa del Thelonious Monk Institute International Jazz Competition e prima ancora del  Sarah Vaughan International Jazz Vocal Competition nel 2013. Talento naturale e splendida voce, Jazzmeia dimostra fin da questo suo esordio discografico di essere una delle migliori cantanti in circolazione. Uno stile che ha ben presente la lezione delle grandi jazz ladies del jazz moderno. In particolare Betty Carter  (è proprio uno dei cavalli di battaglia di Betty, “Tight”, a fare da apripista fulminante alla scaletta del disco, e anche “I Remember You” e “A Social Call” escono dal suo repertorio ) e Sarah Vaughan. In scaletta anche classici Soul (“I’m Going Down”, dalla colonna sonora di “Car Wash” , e “People Make the World Go Round” con un prologo che è una chiamata alle armi e al risveglio delle coscienze contro le ingiustizie, le istanze di Black Lives Matter, le stupidità e le ineguatezze della casta politica e l’inquinamento e le brutture che ci circondano), standards, ballads ed altro ancora.

Fascino, classe, grinta e carisma da vendere e bella come una moderna Nefertiti.

Vijay Iyer 6t: Far from Over (ECM)

 Torna l’attivissimo Vijay Iyer, questa volta alla testa di un sestetto formato da fuoriclasse del calibro di Graham Haynes, Steve Lehman, Mark Shim, Stephan Crump e Tyshawn Sorey. Vijay sintetizza lo spirito dell’album citando le parole del trombettista Wadada Leo Smith (con il quale aveva inciso lo scorso anno uno splendido album di duetti) e ricordando come tra le funzioni della musica ci dovrebbe sempre essere anche il riuscire a trasformare la vita dell’ascoltatore, anche solo per un istante. E la musica viaggia, stimola, spinge al punto giusto, partendo da basi ritmiche ispirate di volta in volta anche dalla musica africana e indiana. Nella scaletta c’è spazio anche per un omaggio, in trio, al grande Amiri Baraka. Una musica che danza sul filo, senza mai perdere l’equilibrio.

Matt Mitchell: FØRAGE (Screwgun)

Talento sbocciato tardi quello di Matt Mitchell che, passata da poco la soglia dei suoi 40 anni, è sempre più al centro dell’attenzione sia per le collaborazioni (con Steve Coleman, Dave Douglas, Rudresh Mahanthappa, il Claudia Quintet ed altri ancora) sia per i suoi progetti solisti, sempre più interessanti. Questo 2017 lo vede esordire alla testa di un ensemble di 13 elementi con “A Pouting Grimace” e, al tempo stesso, tornare alla formula essenziale del solo piano con questo album dedicato all’universo sonoro di Tim Berne. E’ un disco che esprime tutto l’affettto, la riconoscenza e la stima di Mitchell per Berne, un rapporto iniziato timidamente da allievo più di vent’anni fa e ora concretizzato nel gruppo Snakeoil, con cui i due hanno già inciso quattro album ECM. Questo disco riesce ad estrapolare l’essenziale dalla musica di Tim Berne, rivelando come la sua scrittura, pur scarnificata dalle originali partiture nate per diversi progetti musicali, sia dotata di un fascino e un interesse con pochi possibili paragoni nella musica contemporanea.


Jamie Saft/ Steve Swalow/ Bobby Previte w. Iggy Pop: Loneliness Road (Rare Noise)

Gli incontri che non ti aspetti. La storia: il nostro valente trio incide in studio il suo secondo album. A registrazione conclusa il titolare e produttore della Rare Noise, la loro etichetta discografica, il benemerito Giacomo Bruzzo, suggerisce: non è che vorrebbero una voce ospite in qualche brano dell’album? La band è un po’ stupita ma disponibile. Ma quale potrebbe essere il vocalist da coinvolgere? L’impavido discografico punta in alto e spara grosso: “perchè non Iggy Pop?”. Risposta (prevedibile) di Jamie: “si, certo, come no”.  Ma il produttore in questione non è certo uno che si spaventi davanti a una banale Mission Impossible. Riesce a contattare Mr. Orsterberg in persona, bypassando le zavorre dei vari manager e discografici. Iggy riceve quindi i files con le musiche e (colpo di scena!) dice di apprezzare molto la musica che gli viene proposta e l’opportunità di fare l’ospite nel disco. Nel giro di qualche mese scrive i testi, adatta i suoi interventi alla musica già incisa ed entra in studio a sovrincidere la sua inconfondibile voce su tre dei brani del disco.

Morale: applausi per tutti. Per il trio, lirico ed impeccabile come al solito, tre musicisti di diverse generazioni ma di gran classe, che regalano una grande prova . Per la Rockstar scomoda Iggy Pop, che si rivela disponibile, curioso, coraggioso e umile. Come solo i grandi personaggi sanno essere.

E naturalmente menzione d’onore per Mr.Bruzzo, instancabile e ardimentoso visionario delle nuove musiche.

Perchè è sempre bello essere realisti e sognare l’impossibile. Anche perchè a volte si viene premiati.

https://www.youtube.com/watch?v=TY0huZRQbuU&list=RDTY0huZRQbuU

Wadada Leo Smith  : Solo: Reflections and Meditations on Monk (Tum)

“La maggior parte delle persone non ha mai capito che io sono vicino a Thelonious Monk più che a nessun altro artista. Quello che ci connette è una visione della composizione e delle sue forme, la  psicologia musicale e la nostra comune articolazione del gruppo…E un’ illustrazione del silenzio non come momento di assenza o come spazio di riposo, ma come un campo vitale dove le idee musicali esistono come risultato di quello che è stato suonato prima e dopo. Silenzio” (Wadada Leo Smith). Wadada torna a cimentarsi con il solo, una formula essenziale e spietata ma a lui da sempre cara, tanto che il suo primo album era già, nel 1972, una performance solitaria. Lo fa affrontando una delle sue maggiori punti di riferimento musicale, quel Thelonious Monk ormai assunto a vera e propria istituzione della musica afroamericana e che proprio nel 2017 veniva celebrato in occasione del suo centenario. In scaletta quattro straclassici di Monk e quattro brani ispirati dalla sua musica, 8 riflessioni per sola tromba che lasciano il segno. Si, c’è anche Round Midnight, lasciato all’ultimo come ciliegina di una torta già ricca e gustosa.

Sky Music: A Tribute To Terje Rypdal (con Henry Kaiser, Bill Frisell, Nels Cline, David Torn, Jim O’Rourke etc) (Rune Gramophon)

Un album che celebra un fuoriclasse della chitarra moderna, il norvegese Terje Rypdal, e i suoi quasi 50 anni di storia musicale.  Rypdal è un maestro riconosciuto, mai arrivato alla popolarità e al successo su vasta scala ma comunque da sempre al centro dell’ammirazione dei colleghi musicisti come inventore di un linguaggio strumentale e uno stile decisamente originale. L’idea dell’omaggio, caduta non a caso in coincidenza con il 70° compleanno di Rypdal, è partita dal chitarrista californiano Henry Kaiser, che è riuscito a coinvolgere nell’operazione alcuni dei migliori specialisti della sei corde americani e scandinavi.  Tra i musicisti coinvolti ci sono Bill Frisell e David Torn, Nels Cline (in duo con Erik Friedlander) e un mucchio selvaggio che comprende Jim O’Rourke, , Hedvig Mollestad Thomassen, Hans Magnus Ryan (Motorpsycho), Reine Fiske, Even Helte Hermansen e lo stesso Henry Kaiser.

Si va dalle atmosfere ovattate dei soli alle selvagge cavalcate a perdifiato delle tracce collettive, che coinvolgono fino a sei chitarristi contemporaneamente, accompagnati da una ritmica che comprende Ståle Storløkken, (Elephant9, Supersilent, T.Rypdal band), Ingebrigt Håker Flaten e Gard Nilssen.

Un piccolo monumento alla chitarra e a uno di quei signori che più hanno contribuito a svilupparne il linguaggio moderno: buon compleanno Terje. E grazie.

https://www.youtube.com/watch?v=s_WSFQ3bWX8

 

 

 

 

 

 

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