Anno 2022, nuovo record per il riscaldamento dell’Oceano

Roma, l’anno 2023 si apre con la notizia di un nuovo record relativo al riscaldamento dell’Oceano accompagnato da un aumento della stratificazione e dalla variazione di salinità delle acque che prefigurano quale sarà il futuro del mare in un clima in continuo riscaldamento.

Secondo lo studio Another year of record heat for the oceans, pubblicato sulla rivista Advances in Atmospheric Science, nel 2022, per il settimo anno consecutivo, il contenuto termico delle acque dell’oceano ha segnato un nuovo record.

L’articolo firmato da un team internazionale di 24 ricercatori di 16 istituti, tra cui Simona Simoncelli dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e Franco Reseghetti dell’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) analizza osservazioni, dagli anni ’50 a oggi, appartenenti a due dataset internazionali: il primo dell’Institute of Atmospheric Physics (IAP) della Chinese Academy of Sciences (CAS), il secondo del National Centers for Environmental Information (NCEI) della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA). “I dataset, IAP e NCEI, sono consistenti ed entrambi mostrano un valore record di calore accumulato nei primi 2000 m di profondità dell’oceano nel 2022”, commenta Tim Boyer della NCEI/NOAA.

Nello specifico, il contenuto di calore dell’oceano (OHC, Ocean Heat Content) stimato nel 2022 tra la superficie e i 2000m di profondità, è aumentato di circa 10 Zetta Joule  (ZJ), rispetto al valore record raggiunto nel 2021, equivalenti a circa 100 volte la produzione mondiale di elettricità nel 2021, circa 325 volte quella della Cina, 634 volte quella degli Stati Uniti e poco meno di 9.700 volte quella dell’Italia. Per dare un’idea della enormità del valore di energia accumulato, 10 ZJ di calore possono mantenere in ebollizione 700 milioni di bollitori da 1,5 litri di acqua per tutta la durata dell’anno.

Il professor Lijing Cheng dell’Accademia Cinese delle Scienze, nonché primo autore del lavoro, ha così commentato questi risultati: “Il riscaldamento globale dell’oceano continua e si manifesta sia con nuovi record del contenuto termico delle acque ma anche con nuovi valori estremi per la salinità. Le aree già salate diventano ancora più salate mentre le zone con acque più dolci diventano ancora meno salate: c’è un continuo aumento dell’intensità del ciclo idrologico”.

Tre indicatori chiave del cambiamento climatico relativi all’oceano confermano il continuo aumento della temperatura in abbinamento a livelli sempre più elevati di salinità e all’aumento della sua stratificazione, ovvero la separazione dell’acqua in strati che può ridurre fino ad annullare il rimescolamento gli scambi tra la superficie e le zone più profonde.

I dati del 2022 confermano che tutti questi fenomeni continuano su scala globale anche se non in modo omogeneo nei vari bacini. Tra le tante conseguenze, l’aumento della salinità e della stratificazione dell’Oceano può alterare il modo in cui il calore, il carbonio e l’ossigeno vengono scambiati tra l’oceano e l’atmosfera. Questo è un fattore che può causare la deossigenazione all’interno della colonna d’acqua che suscita forte preoccupazione, non solo per la vita e gli ecosistemi marini, ma anche per gli esseri umani e gli ecosistemi terrestri.

Tutto ciò contribuisce a ridurre la biodiversità marina, inducendo ad esempio specie ittiche importanti a spostarsi, provocando situazioni critiche nelle comunità dipendenti dalla pesca e la loro economia, originando quindi un effetto a catena sul modo in cui le popolazioni interagiscono con il proprio ambiente circostante.

Al tempo stesso, anomalie a livello meteorologico sono state ben evidenti nel 2022, che sarà ricordato per le ripetute ondate di calore in particolare nell’Europa occidentale con nuovi record di temperature atmosferiche in molti periodi dell’anno combinate ad una significativa riduzione delle precipitazioni. La conseguente siccità in queste aree ha influito negativamente non solo sulle attività agricole ma anche sulla qualità della vita delle persone (per gli elevati consumi energetici per la climatizzazione e per la produzione dell’energia elettrica stessa), aumentando anche il rischio di incendi. In altre aree si sono verificate invece alluvioni spesso sostenute dall’incremento di evaporazione nei mari più caldi. Tutto questo contribuisce a modificare il ciclo idrologico, rimarcando il ruolo interattivo che rivestono gli oceani.

Quanto al Mediterraneo si conferma il bacino che si scalda più velocemente tra quelli analizzati nello studio ma il contenuto di calore nel 2022 si attesta allo stesso livello del 2021 secondo le stime dello IAP-CAS (Institute of Atmospheric Physics, Chinese Academy of Sciences). I dati del modello di rianalisi del Mediterraneo prodotti e distribuiti dal servizio marino europeo Copernicus indicano invece una sua diminuzione rispetto al 2021. Tali differenze possono attribuirsi alle diverse tecniche di elaborazione dei dati e alla loro distribuzione spazio-temporale. Variazioni di breve periodo (inter-annuali) sono comunque parte caratteristica del sistema ed ulteriori approfondimenti sono attualmente in corso.

Api a rischio. Decimate da parassiti, pesticidi e meteo

Parassiti, pesticidi ed eventi meteorologici estremi: sono questi i principali nemici delle api, responsabili della decimazione di intere colonie.

A individuare i nemici delle piccole api, con il primo studio sistematico condotto su un’area molto vasta, è la ricerca italiana pubblicata sulla rivista Scientific Reports nell’ambito di un approfondimento sul declino e l’estinzione degli insetti e condotta dalla Scuola Superiore Sant’Anna utilizzando dati americani.

La statistica Francesca Chiaromonte, coordinatrice della EMbeDS (Economia e Management nell’era della Data Science) della Scuola Sant’Anna e della Pennsylvania State University osserva che, “comprendere il declino delle api è di assoluta importanza perché gli impollinatori ricoprono un ruolo fondamentale dal punto di vista biologico ed economico. Il nostro studio è il primo a considerare un’elevata estensione spazio-temporale – l’intero territorio degli Stati Uniti, per un periodo di diversi anni – e molteplici potenziali fattori di stress”.

I dati emersi dalla ricerca

Al netto delle differenze geografiche e stagionali, i tre fattori indicati nella ricerca sembrano essere quelli determinanti. Tramite le diverse fonti di dati pubblici, i ricercatori hanno raccolto e integrato informazioni sullo stato delle colonie di api, sui fattori di stress che le influenzano, le condizioni meteorologiche e di utilizzo del suolo negli Stati Uniti nel periodo compreso tra il 2015 e il 2021.

E’ emerso così che l’acaro parassita Varroa destructor è fra i principali nemici delle api. “E’ diffusa in tutti i continenti ed è fortemente associata alla moria di api. La lotta a questo acaro rappresenta una delle sfide più importanti per l’apicoltura moderna”, osserva Luca Insolia, primo autore dello studio e che, dopo gli studi alla Scuola Sant’Anna è post-doc all’Università di Ginevra, dopo aver conseguito il PhD in Data Science e aver collaborato con il Dipartimento EMbeDS della Scuola Sant’Anna.

“Acari come la Varroa destructor – aggiunge – seguono andamenti stagionali e gli apicoltori potrebbero sfruttare i risultati del nostro studio per implementare trattamenti più efficaci e per supportare varie altre pratiche apicole, come le attività di nomadismo, la nutrizione suppletiva e lo svernamento”.

Fra le stagioni poi , l’inverno è la più pericolosa per le api, rileva Martina Calovi, fra gli autori dello studio e ora alla Norwegian University of Science and Technology dopo gli studi alla Scuola Sant’Anna.

“Sebbene -dice- sarebbero necessari altri dati per comprendere appieno il ruolo del cambiamento climatico, i nostri risultati sugli effetti negativi di eventi meteorologici estremi sulle api forniscono alcune importanti evidenze preliminari”.

“Auspichiamo -conclude- che il nostro studio possa contribuire a una maggiore sensibilizzazione verso la raccolta di dati, così come la loro condivisione con il mondo della ricerca, negli Stati Uniti ed in altre regioni del mondo, compresa”.

Plastica, quanto ne ricicliamo veramente? Secondo Greenpeace, negli USA si arriva al 5%

Secondo un rapporto di Greenpeace sullo stato del riciclaggio della plastica negli Stati Uniti, la stragrande maggioranza della plastica che le persone usano, e poi raccolgono negli appositi bidoni per il riciclaggio, finirebbe poi in discarica o peggio.

Il rapporto di Greenpeace, cita dati pubblicati il maggio scorso, da cui risulterebbe che la quantità di materiali plastici effettivamente trasformati in nuovi prodotti, è scesa a nuovi minimi arrivando a circa il 5% di quella raccolta. Non solo ma che si prevede che questo numero percentuale diminuirà ulteriormente man mano che aumenterà la produzione della plastica.

Greenpeace ha scoperto che nessuna plastica, nemmeno quelle delle bottiglie delle bevande, uno degli articoli più numerosi che vengono gettati nei bidoni del riciclaggio, arriva ad una quantità tale da essere definita “riciclabile”, per gli standard stabiliti dalla ‘Ellen MacArthur Foundation New Plastic Economy Initiative’, secondo cui la plastica deve avere un tasso di riciclaggio di almeno il 30% per raggiungere tale definizione, ed è anche vero che nessun tipo di plastica è mai stato riciclato e riutilizzato vicino a quella percentuale.

“Viene prodotta sempre più plastica ma una percentuale sempre più piccola viene riciclata”, afferma Lisa Ramsden, attivista senior per la plastica per Greenpeace USA. “La crisi peggiora sempre di più e, senza cambiamenti drastici, continuerà a peggiorare poiché l’industria prevede di triplicare la produzione di plastica entro il 2050”.

Gli esperti in gestione di rifiuti affermano che il problema del riciclo della plastica è il costo elevato che bisogna pagare per raccoglierla smistarla. Esistono infatti migliaia di diversi tipi di plastica e nessuno di loro può essere fuso insieme agli altri, inoltre la plastica si degrada anche dopo uno o due riciclaggi, per di più Greenpeace ha anche scoperto che più la plastica viene riutilizzata, più diventa tossica.

La plastica nuova, invece, è economica e facile da produrre, il risultato è che i rifiuti di plastica hanno poco mercato, questa è però una realtà una che l’opinione pubblica fatica proprio ad accettare.

Trent Carpenter, il direttore generale della ‘Southern Oregon Sanitation’, dice che quando hanno informato i clienti, un paio di anni fa, del fatto che non avrebbero più potuto più portare rifiuti di plastica diversi dalle bottiglie delle bevande e contenitori tipo quelli per il latte e per il detersivo, le persone rimasero addirittura sconvolte, perché erano abituate a mettere nei contenitori del riciclo tutti i tipi di plastica: contenitori delle fragole, buste, vasetti di yogurt, eccetera.

“Abbiamo dovuto rieducare le persone sul fatto che una grande quantità di quel materiale finisce in una discarica”, ha detto Carpenter. “Non andrà in un impianto di riciclaggio per essere riciclato, ma una volta in nell’impianto di riciclaggio verrà gettato in discarica da qualche altra parte, perché con quel materiale non si può fare nulla”.

Il messaggio che non tutti i materiali plastici possano essere riciclati è stato difficile da accettare per il pubblico, essendoci così tanti contenitori diversi che fino ad allora tutti avevano messo nei contenitori per il riciclaggio.

Carpenter afferma di voler usare trasparenza nei confronti dei propri clienti e dire loro la verità, a differenza di alcune aziende che continuano a dire ai clienti che oggetti di plastica, come buste e contenitori vari, vengano trasformati in nuovi prodotti.

Greenpeace ha scoperto che ci sono un paio di strutture che stanno cercando di riciclare contenitori di plastica, chiamati “numero 5”, a causa del marchio che è stampato su di essi, ma che i numeri sono bassi. Nonostante il 52% degli impianti di riciclaggio negli Stati Uniti accetti questo tipo di plastica, il rapporto ha rilevato che meno del 5% di questo materiale, venga effettivamente riusato, mentre il resto finisce in una discarica.

Allo stesso modo, la National Association for PET Container Resources, un gruppo commerciale del settore, ha scoperto nel 2017 che solo il 21% delle bottiglie di plastica raccolte per il riciclaggio vengono poi trasformate in nuovi prodotti.

Un rapporto investigativo di NPR (National Public Radio) ha rilevato nel 2020 che i funzionari del dell’industria petrolifera e del gas hanno fuorviato il pubblico sulla riciclabilità della plastica, i loro stessi rapporti infatti mostravano di sapere già negli anni ’70 e ’80 che la plastica non poteva essere riciclata in modo abbastanza economico.

Dopo la pubblicazione del rapporto di Greenpeace, Joshua Baca, vicepresidente per l’American Chemistry Council, un gruppo di lobby del settore della plastica, ha inviato un’e-mail a NPR definendo le opinioni di Greenpeace “fuorvianti, estranee e fuorvianti”.

Baca ha affermato che l’industria ritiene di essere “al culmine di una rivoluzione della circolarità” quando si tratta di riciclare la plastica “aumentando lo smistamento, il riciclaggio avanzato e nuove partnership che consentono di rifare la plastica usata ancora e ancora”.

Consapevoli che la risoluzione del problema sarebbe solo quella di usarne meno, ambientalisti e legislatori stanno ora spingendo per una legislazione che limiti proprio la produzione della plastica, vietando la plastica monouso, ma i progetti di legge che vanno in questa direzione, e che hanno portato a tassi di riciclaggio di successo in stati come l’Oregon e il Michigan, devono affrontare, per ovvi motivi, una forte resistenza da parte dei lobbisti dell’industria della plastica e del petrolio.

Dopo anni passati ad abbracciare il riciclaggio della plastica, molti gruppi ambientalisti americani, sperano ora che il pubblico veda finalmente la plastica per quello che è – spazzatura – e che le persone si chiedano se c’è qualcos’altro che potrebbero utilizzare al suo posto.

Una visione ottimistica per il clima!? Il gruppo IEA pensa che si possa avere

Secondo l’International Energy Agency (IEA), la domanda globale per tutti i tipi di combustibile fossile raggiungerà il picco entro il 2030, offrendo così un raro barlume di ottimismo sui cambiamenti climatici

Nel suo resoconto annuale, noto come World Energy Outlook, l’IEA ha dichiarato di aspettarsi che la domanda mondiale di petrolio, gas naturale e altri combustibili a emissioni di carbonio inizierà a diminuire a causa delle nuove politiche messe in atto dai governi per combattere il cambiamento climatico. Ha inoltre suggerito che la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina accelererà il passaggio all’energia pulita.

Il rapporto, non dimostra appieno che il mondo è sulla buona strada per fermare il riscaldamento globale, visto l’immenso divario tra ciò che sta accadendo e ciò che deve accadere ma comunque, ci fa notare che il mondo sta cambiando. E sta cambiando nella giusta direzione, secondo l’IEA.

La proiezione dell’IEA non punta a dare una previsione di ciò che accadrà, ma è un’istantanea di ciò che, secondo il gruppo, accadrebbe se il mondo continuasse a percorrere la strada attuale.

Il rapporto rilasciato include tre diversi scenari: uno è quello che il mondo dovrebbe fare per raggiungere le emissioni nette pari zero entro il 2050. Un altro è quello che si prospetta se i Paesi rispettassero gli impegni assunti in materia di clima. Il terzo si basa invece sulle politiche che i Paesi stanno effettivamente attuando.

Quest’anno, per la prima volta, lo scenario delle politiche dichiarate, ovvero il terzo scenario basato su ciò che i Paesi stanno effettivamente facendo, mostra che la domanda di combustibili fossili raggiungerà il suo picco e inizierà a diminuire nei prossimi anni.

Il previsto abbandono dei combustibili fossili stima L’IEA, anche se non sarà così veloce come sperano gli scienziati, è incentivato dalla politiche attuali che stanno iniziando ad innescare questo cambiamento.

Governi e crisi alla base del cambiamento

Cosa sta determinando il cambiamento? L’IEA sottolinea che a farlo sono sia i recenti cambiamenti politici, come le disposizioni sul clima contenute nell’Inflation Reduction Act negli Stati Uniti sia le spinte all’energia pulita in Cina, India e Giappone.

Il gruppo ha anche calcolato che l’attuale crisi energetica, causata in gran parte dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, sta effettivamente accelerando la decarbonizzazione.

International Energy Agency (IEA)

L’IEA è un gruppo di Paesi consumatori di petrolio fondato negli anni ’70, all’apice della crisi petrolifera, per essere una sorta di contrapposizione all’OPEC.

Nato da un’idea di Henry Kissinger aveva lo scopo di influenzare i mercati petroliferi, proteggere l’accesso all’energia e gestire i prezzi.

Anche quest’anno l’agenzia è stata al centro dell’attenzione mediatica quando il Presidente Joe Biden ha coordinato con altri Paesi membri dell’IEA un massiccio rilascio di petrolio dalle riserve strategiche.

L’analisi dell’AIE è molto apprezzata dalla comunità, ma l’industria petrolifera è scettica sul modo in cui incorpora le azioni governative nei suoi rapporti.

Per maggiori informazioni a riguardo vi invitiamo a leggere l’articolo sul sito della NPR al seguente link: www.npr.org

Just Stop Oil: perché gli ambientalisti protestano contro l’arte?

Londra, il mondo dell’arte è sotto i riflettori da diversi giorni. Due attiviste del gruppo Just Stop Oil hanno lanciato della salsa di pomodoro contro un quadro di Van Gogh.

Il fatto è noto, nella giornata di venerdì 14 ottobre Phoebe Plummer, 21 anni, e Anna Holland, 20 anni, attiviste di Just Stop Oil sono entrate nel National Gallery di Londra e una volta trovatesi difronte il celeberrimo quadro di Van Gogh “I Girasoli” hanno lanciato sulla tela del sugo di pomodoro. Le due hanno poi incollato le loro mani sulla parete e hanno urlato diverse frasi di protesta: “L’arte vale più della vita? Più del cibo? Più della giustizia?”.

Non è però la prima volta che Van Gogh finisce nel mirino degli attivisti. Nel mese di luglio il famoso “Peach Trees in Blossom” del pittore era stato protagonista di un’altra azione del gruppo, insieme a diversi quadri esposti a Londra, Glasgow e Manchester. In queste azioni di disobbedienza i membri di Just Stop Oil avevano incollato le loro mani a diversi dipinti esposti.

A finire nel mirino non solo l’arte. Sempre a luglio il gruppo aveva manifestato il proprio dissenso durante il Gran Premio di Formula 1. A Silverstone cinque ragazzi si erano seduti sul tracciato interrompendo la gara.

L’obiettivo sempre lo stesso: puntare i riflettori sul cambiamento climatico e sulla produzione di combustibili fossili.

Che cos’è Just Stop Oil?

Just Stop Oil è un movimento presente da diverso tempo sul territorio britannico. Il suo obiettivo è quello di garantire che il governo inglese si impegni a porre fine a tutte le nuove licenze e autorizzazioni per l’esplorazione, lo sviluppo e la produzione di combustibili fossili nel Regno Unito.

Come si legge nel loro sito “Le prove scientifiche sono inequivocabili: il cambiamento climatico è una minaccia per il benessere umano e la salute del pianeta. Ogni ulteriore ritardo nell’azione concertata a livello globale farà perdere una breve finestra che si sta rapidamente chiudendo per garantire un futuro vivibile“.

Lo scopo di questo movimento ambientalista è quindi già nel suo nome: Basta Olio, ovviamente inteso come combustile.

Dopo i “I Girasoli”

Le proteste del gruppo non si fermano. A Londra un giovane è stato ripreso mentre si arrampica sul furgone della polizia ed espone lo striscione arancione di Just Stop Oil. In un’altra manifestazione nei pressi di Hide Park, un gruppo di attivisti ha bloccato il traffico tenendo in mano numerosi striscioni. Uno di loro ha poi spruzzato della vernice arancione sulla vetrina dello showroom di Aston Martin. Altri, in segno di protesta, si sono letteralmente incollati all’asfalto.

Questo gesto è ormai noto. In un certo qual modo, può essere definito come il simbolo di questa protesta. Incollarsi fino al momento in cui non vieni “scollato”. Un po’ come l’immobilità di questa società nei confronti dell’ambiente. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci strattoni e ci riporti alla mobilità.

WWF, il numero degli animali sul pianeta, si è ridotto in media del 69% nell’ultimo mezzo secolo. Esistono soluzioni concrete contro la perdita di biodiversità?

Londra, un nuovo rapporto del World Wildlife Fund (WWF) e della Zoological Society of London, che ha analizzato anni di dati sul numero degli di animali selvatici che ci sono in tutto il mondo, ha riscontrato una generale tendenza al ribasso della biodiversità della Terra.

Inoltre, secondo il Living Planet Index, una metrica che esiste da cinque decenni, le popolazioni animali nel mondo si sono ridotte in media del 69% tra il 1970 e il 2018. Sempre secondo il rapporto del WWF, il quadro si presenta differente nelle diverse regioni del globo.

Non tutte le popolazioni animali sono infatti diminuite: in alcune parti del mondo si sono registrati cambiamenti più drastici di altri. Nonostante ciò, gli esperti affermano che la forte perdita di biodiversità è un segnale chiaro e preoccupante di ciò che sta per accadere al mondo naturale.

Sviluppo delle infrastrutture, produzione di energia e deforestazione: queste le principali cause emerse dal rapporto. A queste si aggiunge il cambiamento climatico. Lo studio infatti suggerisce che quest’ultimo, che sta già scatenando effetti ad ampio raggio sulle specie vegetali e animali a livello globale, potrebbe diventare la principale causa di perdita di biodiversità se l’aumento delle temperature non sarà limitato a 1,5°C.

Marco Lambertini, direttore generale del WWF Internazionale, ha affermato che le crisi intrecciate della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico sono già responsabili di una serie di problemi per l’uomo. Tra questi le migrazioni e le morti causate da condizioni meteorologiche estreme, la mancanza di accesso al cibo e all’acqua in molte zone del globo e l’aumento della diffusione di malattie zoonotiche, ossia quelle che possono essere trasmesse direttamente o indirettamente tra gli animali e l’uomo.

Per intervenire e prevenire i danni ambientali, i leader mondiali che si riuniranno a dicembre a Montreal in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità dovranno adottare misure importanti. Lambertini ha sottolineato come questa sia l’ultima occasione per fare qualcosa di concreto. Per il direttore livornese bisogna intraprendere azioni coraggiose, a volte anche drastiche, per raggiungere un futuro positivo. A poi lasciato al tempo il responso: con la fine di questo decennio si saprà se la lotta per le persone e la natura è stata vinta o persa.

Esistono delle soluzioni?

Un segnale di speranza ci sarebbe, sebbene non esista una cura immediata, gli esperti ritengono che esistano soluzioni concrete contro la perdita di biodiversità. Queste vanno dalla conservazione delle mangrovie a un sistema di baratto transfrontaliero in Africa, fino alla rimozione delle barriere migratorie per i pesci d’acqua dolce.

A queste macro-azioni si possono aggiungere dei piccoli ma significativi gesti che tutti possiamo apportare. Rebecca Shaw, scienziato capo del WWF, ha dichiarato in un’intervista che gli esseri umani hanno l’opportunità di cambiare il loro modo di agire a beneficio della natura cambiando i propri modelli di sviluppo.  Attraverso piccoli gesti giornalieri è possibile cambiare la direzione di questo declino della popolazione.

L’America Latina e i Caraibi hanno registrato un’enorme perdita media di popolazioni del 94% e l’Africa un calo del 66%, mentre il Nord America ha registrato solo un calo del 20% e l’Europa e l’Asia centrale hanno visto le proprie popolazioni di animali selvatici diminuire del 18%.

Secondo il WWF, questa disparità potrebbe essere dovuta al fatto che gran parte dello sviluppo in Nord America e in Europa è avvenuto prima del 1970, anno in cui sono iniziati i dati sulla perdita di biodiversità.

Exit mobile version