‘Scuola alta borghesia’: Furlan, “no a indicatori di censo”

“E’ nella scuola che questo Paese ha creato integrazione ed è attraverso la scuola che noi creiamo la società del futuro. Non può essere la scuola del censo, è una cosa che non sta nè in cielo né in terra”. Lo ha detto Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl, a proposito del caso dell’Istituto comprensivo di via Trionfale a Roma.

“Credo che quegli indicatori che chiedono di selezionare la propria offerta indicando anche il censo delle famiglie – ha aggiunto – siano assolutamente da togliere”. Furlan, parlando a margine del Consiglio generale della Cisl di Firenze e Prato, ha criticato il testo di presentazione della scuola romana pubblicato sul proprio sito, che descrive attraverso l’estrazione sociale la ripartizione degli studenti nelle varie sedi scolastiche: “Mi fa un effetto negativo al massimo. La scuola deve caratterizzarsi per la sua competenza didattica, quale innovazione didattica può offrire, e la scuola è inclusiva”. Dunque, ha concluso la leader della Cisl, “i dirigenti scolastici riflettano bene se questi dati offrono una scuola inclusiva, la scuola del futuro, la scuola dell’accoglienza, la scuola dove crescono i nostri ragazzi, oppure hanno altri metri”.

Annamaria Furlan, commentando poi le dichiarazioni alla Stampa del ministro per il Sud e la coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, dice: “Vedo che ci si appassiona sempre molto sugli atti regolatori del mercato del lavoro, cosa importante, e invece ci si appassiona molto meno sul fatto di come lo creiamo il lavoro in questo Paese: io credo che oggi la priorità sia proprio quella. Il Jobs act va rivisto”, ed “è tempo di un nuovo Statuto dei lavoratori”.

“Sblocchiamo i cantieri – ha affermato Furlan, parlando nel capoluogo toscano a margine del Consiglio generale della Cisl di Firenze e Prato -, partiamo proprio dalle nostre infrastrutture che sono carenti, obsolete, non più sicure, e in molta parte del territorio mancano totalmente. E investiamo in innovazione, in formazione, in ricerca. Credo che oggi la priorità innanzitutto debba essere questa”.

Caritas: “Grave perdita” esclusione dalla raccolta di abiti usati

Prato, non è stato rinnovato l’accordo siglato dalla Caritas diocesana di Prato prima con Asm e poi con Alia per la raccolta degli indumenti usati, con conseguente scomparsa dal 1° gennaio del logo della stessa Caritas dai ‘cassonetti bianchi’ destinati ai vestiti.

Di “grave perdita” parla la Caritas diocesana spiegando che il contributo in denaro previsto “veniva ridistribuito in varie forme di aiuto alle persone” bisognose “che si rivolgevano ai centri di ascolto diocesani”.

“Dal 2006, anno del primo accordo, fino a oggi – si spiega in una nota -, nel bando di gara per l’affidamento del servizio era specificamente indicato di destinare parte dei proventi derivanti dalla raccolta nel territorio pratese alla Caritas diocesana di Prato. Nel nuovo bando di gara predisposto da Ato Toscana Centro invece questa previsione non è contemplata”.

Nella nota si precisa che gli accordi precedenti prevedevano un contributo annuale in denaro per la gestione del servizio, non già la distribuzione dei vestiti agli utenti dei centri di ascolto diocesani “che invece venivano sostenuti con altre forme di aiuto rese possibili anche grazie al contributo proveniente dalla raccolta degli indumenti usati”.

Caritas spiega che comunque continua la raccolta di abiti “presso le varie parrocchie che poi effettuano la distribuzione alle persone in difficoltà scegliendo i capi ancora indossabili.

Grazie a tutte quelle persone che in questi anni, con il loro comportamento virtuoso hanno conferito nei cassonetti bianchi gli indumenti, contribuendo così ad aiutare, attraverso l’azione della Caritas diocesana, tutte quelle persone in difficoltà che si sono rivolte ai centri di ascolto”.

Prato: diocesi da premio S.Stefano a aziende che osservano regole

Le imprese vincitrici saranno premiate sabato 1 febbraio 2020 nel corso di una cerimonia pubblica presso la sede della Camera di Commercio di Prato.

Tre storiche aziende del distretto tessile di Prato – lanificio Mario Bellucci, filature Filpucci e
Biagioli Modesto – sono le vincitrici del Premio Santo Stefano, riconoscimento promosso dalla Diocesi pratese e consegnato alle ditte che riescono ad ottenere successi nel rispetto delle regole e della concorrenza. L’annuncio è stato dato dal vescovo Giovanni Nerbini al termine della messa di Santo Stefano, patrono della città, celebrato questa mattina in cattedrale.
Le imprese vincitrici saranno premiate sabato 1 febbraio 2020 nel corso di una cerimonia pubblica presso la sede della Camera di Commercio di Prato.
Il Premio Santo Stefano, oltre che dalla Diocesi, è promosso anche da Comune, Provincia, Camera di Commercio e Fondazione Cassa di Risparmio di Prato. Una menzione speciale di questa edizione è stata riservata all’azienda oleo-vinicola Marchesi Pancrazi

Oggi è diffusa l’abitudine a considerare virtù il pensare ‘agli affari propri’, ma in realtà
questo detto nasconde forme di egoismo mascherato di perbenismo”  ha detto il vescovo  Nerbini,nell’omelia.

Per monsignor Nerbini (per lui primo 26 dicembre da vescovo di Prato) occorre invece “mettere tra le priorità nella vita sociale della nostra città la ricerca del bene comune”. Il
“‘beneavere’ non è sufficiente a generare ‘benessere'”, ha anche sottolineato con un’immagine, mentre per la ricerca del bene comune serve “un grande e rinnovato sforzo educativo teso a coinvolgere tutti in questa responsabilità” che appartiene non solo “ai poteri costituiti civili e religiosi, ma a ogni cittadino, a cominciare dall’età scolare”

Prato, moda: per la prima volta in 20 anni frena l’impresa cinese

L’impresa cinese di Prato frena per la prima volta in 20 anni: la produzione industriale del settore dell’abbigliamento del distretto toscano, ad appannaggio quasi esclusivo di imprenditori e lavoratori orientali che risiedono in città, nei primi due trimestri del 2019 ha registrato -4,6% e -5% rispetto ai trimestri precedenti.

Un trend negativo che non si era ancora verificato per la città di Prato.

A confermarlo sono i dati diffusi oggi da Confindustria Toscana nord nel corso della conferenza stampa di fine anno. La crescita del comparto in città – composto da circa 5 mila aziende cinesi e da poche altre italiane – era stata una costante dell’ultimo ventennio, che ha portato il distretto dell’abbigliamento a superare il numero di addetti del settore tessile pratese (i primi sono più di 20 mila, i secondi sono poco più di 19 mila) e a fare di questa provincia quella con il maggior numero di lavoratori del settore in Italia.

‘My Fever’ quattro incontri al Centro Pecci

Prato, lo scorso 7 giugno ha aperto i battenti, al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, il secondo tempo di quella che è, con buona probabilità, la più completa e importante mostra che sia mai stata dedicata alla storia e alla cultura dei club: ‘Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today’.

Il primo tempo si era svolto, con grande successo internazionale, al Vitra Design Museum che, assieme ad ADAM – Brussels Design Museum, ha prodotto il grande progetto espositivo fornendo uno staff curatoriale di alto livello, capitanato da Jochen Eisenbrand e coadiuvato da Elena Magini, come curatrice associata per la mostra al Centro Pecci che ha visto l’aggiunta di un’importante sezione dedicata agli incroci, tutti italiani e molto fiorentini, tra architettura radicale e mondo dei club.

Per accompagnarci nel migliore dei modi verso la chiusura della mostra, il Centro Pecci ha ideato ‘My Fever’ una rassegna di quattro incontri in mostra per scoprire dalla voce dei protagonisti la storia della Club Culture. Nel primo incontro di giovedì 19 settembre alle ore 18, ci accompagneranno nelle sale della mostra Simona Faraone, una delle prima donne dj d’Europa, pionieristica animatrice della scena romana dai primi anni 90, e Mauro “Boris” Borella, uno dei fondatori e animatori dello storico club Link di Bologna, luogo cruciale per lo sviluppo del clubbing italiano collegato alle scene internazionali. Io avrò il ruolo di incalzarli e mediare le domande del pubblico. Dopo la visita alla mostra seguirà un Dj Set di Simona Faraone. L’ingresso all’evento è libero con biglietto della mostra.

Bisogna considerare che il modo in cui questa storia è stata scritta parte da un presupposto: le discoteche sono stati veri e propri epicentri di cultura contemporanea. Hanno messo in discussione i codici prestabiliti del divertimento e hanno permesso di sperimentare stili di vita alternativi attraverso le manifestazioni più d’avanguardia del design, della grafica e della moda. Comprendendo a fondo questo assioma si può tessere una intricata matassa di fili che tengono insieme contesti e linguaggi differenti. Perché i club sono stati dei luoghi fondamentali per l’emersione e la crescita delle subculture. Oltre agli eventi musicali, per i quali hanno costituito il laboratorio delle nuove tendenze, sono stati la cornice ideale per lo sviluppo delle arti performative e del design, chiamato a rispondere alle necessità di flessibilità dello spazio. Lo spazio definito dai club è partecipativo e democratico e così deve essere il design che lo struttura. Ma hanno amplificato anche alcuni dei movimenti e delle scuole di moda più radicali e creative, hanno generato un nuovo modo di intendere l’editoria di costume e società, hanno proficuamente intrecciato la propria storia con quella di tanti momenti fondamentali dell’arte più rivoluzionaria e fuori dagli schemi.

E non si tratta solo di edonismo, anzi. A ben guardare, dalla mostra emerge una continuità forte quella tra i movimenti di emancipazione rivendicazione sociale e la scena club. “La costruzione dei processi di auto-coscienza e di identità dei movimenti per i diritti dei gay e delle lesbiche – dice ai nostri microfoni Jochen Eisenbrand – non sarebbe stato lo stesso, per esempio, senza il fondamentale lavoro fatto da almeno due club nella New York degli anni 70. E se la Grande Mela, Chicago, Detroit, Berlino e Londra possono essere considerati i punti cardinali di questa storia non è trascurabile il ruolo rivestito da alcune seminali esperienze italiane. Continua il curatore. “Dall’inizio della nostra ricerca la scena italiana dei club storici ci è sembrata un riferimento fondamentale, soprattutto per l’imprescindibile ruolo che architetti e designer hanno avuto nella definizione degli spazi dei club, negli anni 70. Magazine come Domus e Casabella hanno saputo ospitare il dibattito attorno agli aspetti teorici connessi con quelle visioni d’avanguardia. In più a Firenze c’erano il Mac II e lo Space Electronic che hanno rappresentato degli esempi straordinari di applicazioni di quegli slanci utopici. Ecco perché abbiamo voluto creare una nuova parte della mostra con contenuti specificatamente pensati per approfondire questi aspetti”.

Assieme a film, fotografie d’epoca, manifesti, abiti e opere d’arte, la mostra propone anche una serie di installazioni luminose e sonore che accompagneranno il visitatore in un viaggio affascinante e pieno di spunti da decifrare. A completare la mostra, Konstantin Grcic e Matthias Singer hanno elaborato un’installazione musicale e luminosa, una silent disco che catapulta i visitatori nella movimentata storia della club culture. Una raccolta selezionata di copertine di dischi, tra cui i disegni di Peter Saville per Factory Records o la copertina programmatica dell’album Nightclubbing di Grace Jones, sottolinea infine le importanti relazioni tra musica e grafica nella storia delle discoteche dal 1960 a oggi. Il percorso espositivo segue un iter cronologico che prende avvio con le discoteche degli anni Sessanta, che per la prima volta trasformano il ballo in un rito collettivo da officiare in un mondo fantastico fatto di luci, suoni e colori in cui immergersi. Ci sono i luoghi della subcultura newyorchese, come l’Electric Circus, che con il suo carattere multidisciplinare influenzò anche i club europei, tra cui lo Space Electronic a Firenze concepito dal collettivo Gruppo 9999. C’è il Piper di Torino, lo spazio multifunzionale concepito da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, che con i suoi mobili modulari non solo faceva ballare, ma si prestava ottimamente anche per concerti, happening e teatro sperimentale. Il Bamba Issa, una discoteca toscana sulla spiaggia di Forte dei Marmi ideata dal Gruppo UFO, era essa stessa un teatro dell’arte. Negli anni Settanta, con l’ascesa della disco music la cultura dei club ha un nuovo impulso. Il dancefloor offre un palcoscenico ideale per performance individuali e collettive, creatori di moda come Stephen Burrows o Halston fornivano gli abiti giusti per uno stile sfavillante. Lo Studio 54, aperto a New York nel 1977, diviene un luogo d’incontro molto amato dagli idoli del culto delle celebrità. Due anni dopo, il film Saturday Night Fever segnà il culmine della commercializzazione del movimento disco che, invece, era nato nata in club e bar frequentati dalla comunità LGBTQ+ e nera ma anche latinoamericana, marginalizzate dalla maggioranza bianca e eterosessuale, in modo assolutamente politicizzato e con una forte connotazione sociale come un fenomeno underground, poi traghettato attraverso locali come il Paradise Garage – gay club che per primo rompe le regole della discriminazione razziale − verso la cultura di massa. Non a caso, i contro-movimenti come quello culminato con la Disco Demolition Night di Chicago (1979) diedero voce a tendenze reazionarie, in parte caratterizzate da omofobia e razzismo. Contemporaneamente, discoteche come il Mudd Club o l’Area di New York, fondendo vita notturna e arte, offrivano nuove opportunità ai giovani artisti emergenti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, mentre nei club londinesi come Blitz e Taboo, con i New Romantics nacquero un nuovo stile musica e una nuova moda dalla quale sarebbe emersa la stilista Vivienne Westwood. A Manchester l’architetto e designer Ben Kelly progetta una cattedrale del rave postindustriale, la mitica Haçienda (1982), cofinanziato, tra l’altro, dalla band britannica New Order. Da qui l’acid house, un sottogenere della musica house, partè alla conquista della Gran Bretagna. La scena berlinese dei primi anni Novanta cresce attorno a discoteche come Tresor, dando nuova vita a spazi abbandonati e deteriorati, scoperti dopo la caduta del muro. Anche il Berghain, aperto nel 2004 in una vecchia centrale termoelettrica, dimostra che una scena disco vivace si sviluppa soprattutto dove ci sono gli spazi urbani necessari. Dagli anni 2000, lo sviluppo della club culture si fa più complesso: da un lato è in forte ripresa e in continua espansione, appropriata da marchi e festival di musica globali, dall’altro, molti club sono spinti fuori dai contesti urbani. Nel frattempo, però, è cresciuta una nuova generazione di architetti che si confronta nuovamente con la tipologia del locale notturno: tra questi, lo studio olandese OMA di Rem Koolhaas propone un nuovo concept per una delle discoteche più famose del mondo, il Ministry of Sound II di Londra, definendo le caratteristiche del club del Ventunesimo secolo. “Oggi per i club è diventato molto più difficile essere dei luoghi speciali, con un ruolo di avanguardia – ammette Eisenbrand – anche a causa della rivoluzione digitale. Prima dovevi per forza andare in un club per sentire della nuova musica. Ora ce l’hai ovunque attorno a te, sul tuo telefono. Prima, ciò che accadeva nel club restava nel club, ora tutto viene forzatamente documentato con foto, video, post, instagram stories etc… Un’altra delle ragioni per la attuale crisi dei club credo risieda nell’esplosione del fenomeno festival, nei quali nell’arco di una giornata puoi vedere e sentire decine di dj, uno dopo l’altro. Difficile per i club poter competere con qualcosa del genere”. Staremo a vedere: il futuro del clubbing è ancora tutto da scrivere.

L’intervista di Giustina Terenzi ad Andrea Mi: https://www.controradio.it/podcast/my-fever-suoni-e-voci-della-club-culture-intervista-ad-andrea-mi/

‘Contemporanea Festival’ al Metastasio di Prato

Venti anni di ricerca, sperimentazioni e sfide attorno ai linguaggi e alle pratiche della scena, sono quelli che può vantare Contemporanea Festival che dal 20 al 29 settembre inaugurerà le attività della nuova stagione del Teatro Metastasio di Prato.

Vivere al tempo del crollo è il titolo delle ultime edizioni che suona come un monito e, al contempo, una lucida presa di coscienza dell’urgenza di riflettere sul presente attraverso il fondamentale contributo con il quale coreografi, registi, performer e artisti aggiungono prospettive al nostro sguardo, perché questo non si impigrisca cercando le scorciatoie delle semplificazioni invece che affrontare la complessità del nostro tempo.

Il direttore Edoardo Donatini fa notare che in questa nuova edizione l’attenzione è rivolta in modo prevalente al pensiero politico delle donne, al loro processo creativo che ci accompagna “nella lettura di un tempo e uno spazio a volte intraducibile perché composto da codici nuovi, lontani da stereotipi e condizionamenti culturali”. Alveare, vera fucina di talenti del festival, con l’obbiettivo di evidenziare il ‘processo creativo/l’opera in divenire’, quest’anno è affidato a 12 artiste: Silvia Costa, Sara Leghissa, Daria Deflorian, Elena Bucci, Francesca Macrì, Katia Giuliani, Elisa Pol, Chiara Bersani, Licia Lanera, Chiara Lagani, Ilaria Drago e Rita Frongia.

Gli spettacoli, le performance e le produzioni site specific in programma vedono impegnate 32 compagnie nazionali (con un focus sulla coreografia che ha tra i protagonisti Alessandro Sciaronni, Annamaria Ajmone, Silvia Gribaudi) e internazionali (con il teatro politico dei tedeschi Rimini Protokoll e degli spagnoli Agrupacion Senor Serrano, la ricerca dei francesi Joris Lacoste e Elise Simonet). La danza e le sue tante contaminazioni con altri linguaggi è decisamente uno degli ambiti più indagati dal festival, con la presenza della francese Phia Mènard, della portoghese Marlene Monteiro Freitas, dell’indiana Malinka Taneja, della belga Miet Warlop, la travolgente street dance della jamaicana Cecilia Bengolea e i ballerini d’aria della Compagnie Didier Théron.

Sono invece tre i laboratori formativi per professionisti e semplici appassionati, curati da Gabriella Salvaterra, Kinkaleri, Giorgia Nardin e Jacopo Miliani.

Vista la specifica storia di Contemporanea non è di minore importanza la presentazione del volume “La funzione culturale dei Festival” (ed.Cue Press) che raccoglie gli atti del seminario tenutosi nel 2018 dove alcuni direttori di festival hanno discusso insieme a studiosi, critici e operatori il ruolo dei progetti artistico-culturali che articolano e trasformano la nozione di «festival».

https://www.controradio.it/wp-content/uploads/2019/09/contemporanea2019.mp3?_=1

INFO: https://www.metastasio.it/it/eventi/contemporanea/contemporanea-2019

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