I Nuovi in scena al Niccolini per i cinquecento anni della “Mandragola”

Da mercoledì 11 a domenica 22 aprile i Nuovi fanno rivivere al Teatro Niccolini di Firenze la “Mandragola” di Machiavelli, per la regia di Marco Baliani. La neo compagnia della Scuola per Attori “Orazio Costa” si presenta per la prima volta al pubblico con un capolavoro teatrale del ’500, beffa erotica dal sapore boccaccesco, tanto lieve quanto complessa.

Le scene e i costumi appartengono a Carlo Sala. 

Una produzione Fondazione Teatro della Toscana.

Una comicità amara e spietata poiché, se lo scopo dell’agire politico ha una ‘intenzione alta’, i personaggi della Mandragola usano tutte le loro migliori energie e virtù per uno scopo greve e volgare: il soddisfacimento dell’amore sensuale e l’interesse economico.

Il regista spiega che, “nonostante la materia leggera, Mandragola non tralascia di trattare temi spinositi e compositi o di smentire il Machiavelli de “Il Principe”: dallo smascheramento dell’ipocrisia di autorità intoccabili come la Chiesa o la famiglia nella Firenze rinascimentale, alla dimostrazione che, nella conquista di qualcosa di importante, non importa se di una donna o di un principato, le regole del gioco sono sempre le stesse”.

 

Per la prima volta in Italia un teatro, il Niccolini di Firenze, è interamente animato, vissuto, gestito, spettacolarizzato da giovani attori. Il primo nucleo è costituito dai neodiplomati della Scuola ‘Orazio Costa’ della Fondazione Teatro della Toscana, riuniti sotto il nome dei Nuovi. Sono impegnati in tutti gli aspetti della macchina teatrale, dalla direzione artistica all’amministrazione, dalla comunicazione alle pulizie. Il progetto, strutturato su un percorso di tre anni, prevede che a ognuno dei giovani attori coinvolti sia corrisposta una borsa di studio mensile.

Mandragola compie nel 2018 cinquecento anni: anche se la data convenzionale del 1518 viene oggi retrodatata, può assurgere a gesto simbolico che il percorso della sala di via Ricasoli cominci con quello che viene tradizionalmente considerato il testo fondativo del teatro in lingua italiana, audace per argomento, con molti riferimenti alla novellistica del Boccaccio nell’intreccio e una rappresentazione del tutto negativa della Chiesa e della morale.

Nell’ottica quindi di un rinnovato rapporto formativo Giovani/Maestri, Marco Baliani dirige un cast di giovanissimi in uno spettacolo in continuo fibrillante movimento, come se il turbine delle passioni che governano gli animi dei personaggi si esplicitasse in una frenesia di corpi danzanti. Machiavelli intende analizzare e mostrare la verità effettuale dei mezzi con cui l’uomo arriva a raggiungere i suoi fini, attraverso una prospettiva più intima, di uno scenario della vita privata, utilizzando il linguaggio della comicità, ancora più amara e spietata.

“Quando Machiavelli scrive Mandragola è già stato estromesso da qualsiasi carica istituzionale nel governo della città di Firenze – dice Marco Baliani – è relegato in una specie di esilio forzato, nelle sue campagne. Mastica amaro, la pienezza di vita politica sperimentata in gran parte della sua esistenza è ormai alle spalle e sente che mai più tornerà. Si dedica a una commedia umana che presenta all’inizio del testo come una bagattella, un divertimento scusabile, dato che s’ingegna con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave”.

Ogni personaggio ha un suo doppio-ombra che invisibile lo trascina, lo muove, gli sussurra le parole da dire, lo confonde e lo turba; un regista occulto che muove il corpo del personaggio come una marionetta. Il linguaggio di Machiavelli è in parte tradito, come sempre accade quando l’arte commette l’arbitrio di una traduzione: le parole hanno la stessa forza di quelle originali, ma riescono a parlare alle nostre orecchie disincantate, sono materiche e quindi mai filologicamente rispettose.

“Siamo di fronte a una commedia scura, nera, che non lascia spazio a illusioni. Gli esseri umani – spiega Marco Baliani – sono spinti ad agire da impulsi passionali, sono mossi dal desiderio di veder realizzati ad ogni costo i propri desideri e voglie, e vorrebbero ottenerli con qualsiasi mezzo, senza essere toccati dalla legge, senza dover subire contraccolpi. Ciò che muove i personaggi è un atteggiamento criminale, agire al di fuori della legge ed essere sicuri di poterlo fare”.

Lo Stato, il Principe, la Politica dovrebbero essere consapevoli di ciò che i cittadini, nella realtà, sono, che cosa sentono, da quali bisogni sono mossi ad agire e dovrebbero riuscire a governare le loro passioni affinché non nuocciano alla società ma producano al contrario un utile. Ma questa capacità di ascolto manca del tutto al pensiero politico di oggi.

“Per Machiavelli la gente – conclude Baliani – doveva essere amata, vissuta, incontrata nelle osterie, nelle piazze: solo da lì, da quel contatto, nasceva il suo pensiero politico. Solo avendo fatto esperienza del mondo poteva creare i personaggi della Mandragola; devo allora cercare di restituirli al pubblico con tutta la spietata oscurità da cui provengono, è l’unico modo per conoscerli davvero, per conoscerci davvero”.

“Appuntamento al buio” alla Pergola: girotondo di destini firmato Andrèe Ruth Shammah

Da martedì 10 a domenica 15 aprile Andrée Ruth Shammah dirige al Teatro della Pergola di Firenze la novità assoluta per l’Italia “Cita a ciegas” (Appuntamento al buio): un sorprendente girotondo di destini interpretato da Gioele Dix, Laura Marinoni, Elia Schilton, Sara Bertelà, Roberta Lanave.

“Cita a Ciegas (Appuntamento al buio) è un thriller appassionante – afferma la regista – un avvincente intreccio di incontri apparentemente casuali dove violenza, inquietudine e comicità serpeggiano dentro rapporti d’amore. E’ il testo di Mario Diament più rappresentato nel mondo: è stato per cinque anni in cartellone a Buenos Aires e in molti teatri in Sud America e negli Stati Uniti; in Europa è stato rappresentato a Parigi, Stoccolma e in Ungheria”.

Un uomo cieco, Gioele Dix, è seduto su una panchina di un parco a Buenos Aires. È un famoso scrittore, ispirato a Jorge Luis Borges, che era solito godersi l’aria mattutina; è a lui infatti che è ispirato il personaggio di Gioele che, insieme a Laura Marinoni (la Donna), Elia Schilton (l’Uomo), Sara Bertelà (la Psicologa), Roberta Lanave (la Ragazza), dà vita a uno spettacolo che svela il gioco del destino che gioca sempre allo stesso gioco. Quella mattina la meditazione dell’uomo cieco viene interrotta da un passante: da qui una serie di incontri e dialoghi svelano legami tra i personaggi sempre più inquietanti, misteriosi e a tratti inaspettatamente divertenti.

E’ stato un vero e proprio colpo di fulmine per la regista Andrée Ruth Shammah: Diament è uno scrittore interculturale, un emigrato e un esule che scrive della e sull’Argentina, l’identità e l’isolamento: “Cita a ciegas è un testo che richiede di andare dentro la vita – dice Andrée Ruth Shammah – l’abilità sta nel trasformare tutte quelle cose che non sono visibili, tangibili, che non hanno corpo, come i pensieri, le intenzioni del personaggio, in qualcosa di concreto, riconoscibile nei corpi, nell’intonazione. Bisognava trovare il modo di rivelare tutto quello che non si dice. Lo scrittore cieco, in cui è facile riconoscere il celebre Borges, parla delle realtà parallele, dei due mondi, fa teoria, ma parla di sé, della sua realtà. Quando non vedi, vedi altre cose, dunque c’è un’altra realtà e lui la abita nella sua cecità, che lo rende intuitivo”.

“Non bastava tradurre il testo dall’inglese – interviene ancora la regista – ho confrontato le varie versioni rappresentate nel mondo, le varie traduzioni in diverse lingue e poi ho rimesso insieme i pezzi. Cita a ciegas è stato ra

ppresentato ovunque. Mario Diament, che io amo chiamare “Diamante Diabolico”, ha costruito questa storia con un rigore assoluto, in un insieme di rimandi, coincidenze. Costruisce un meccanismo perfetto, un mondo che prende forma al di là delle parole, della pagina. Volevo sottolineare questa capacità del testo di andare dentro la vita e oltre la realtà”.

In scena c’è una panchina e di fronte a essa, dove il tempo determina giorni e stagioni, frammenti di vita. Lì è seduto il Cieco, il testimone attorno al quale la regia spinge da subito i personaggi che si raccontano attratti dal suo silenzio; lui, lo scrittore, che presta il suo corpo cieco all’avvicendarsi di racconti che denunciano lo stesso irrinunciabile desiderio. Panchina e testimone sono una sola cosa. Quello che deve succedere viene svelato come se non succedesse nulla oltre ai pensieri che si pensano. L’atmosfera è quella di una lunga meditazione. Andrée Ruth Shammah, oltre alla regia, ha curato anche la traduzione e l’adattamento.

Tutto può accadere dietro alle apparenze e nulla ha veramente importanza. Dare vita a cose destinate a essere buttate via, popolare un mondo fatto di pensieri che si ripetono. Fino a che il muro dietro alla panchina si apre come un libro: la panchina si sdoppia in un interno dove due donne si affrontano, tra verità e finzione accennate. La traduzione dallo spagnolo è di Maddalena Cazzaniga, le scene sono di Gian Maurizio Fercioni, i costumi di Nicoletta Ceccolini, le luci di Camilla Piccioni, le musiche di Michele Tadini.

“Per certi versi – riflette la regista – questa storia è anche, insieme, un elogio e un monito alla potenza dell’immaginazione che ci può portare altrove, in mondi paralleli, ma bisogna stare attenti a dove ci lasciamo condurre. Per questo, il muro alle loro spalle si apre e si richiude proprio come fosse un libro. Come se fosse il confine tra l’immaginazione e la realtà, quella realtà da cui un po’ tutti i personaggi tentano di fuggire e che può metaforicamente schiacciarli, richiudendosi”.

Siamo di fronte a una messinscena che non ha segreti da celare: lascia intuire un profondo, irrinunciabile rispetto per le diversità, rese simili da un destino che le unisce, una ruota che gira senza sosta. Ritorna la panchina, come all’inizio. E ci si domanda se l’uomo sia capace di arrivare a se stesso senza dover passare da montagne gelate, percorsi perversi, anni impietosi che annunciano la vecchiaia. Un inno al potere del teatro.

“Lavorare a Cita a ciegas è stata una vera e propria indagine nella psiche umana. Non volevo far vedere – spiega Andrée Ruth Shammah – un unico aspetto dei personaggi, dar loro un solo colore senza mostrarne le sfumature. È per questo che mi sono divertita anche a giocare con i colori dei loro costumi. Un colore esce e ne segue un altro che poi ritorna con una lieve differenza di tonalità. Tutti i personaggi hanno una ferita interiore e le loro azioni, anche le più abiette e pericolose, hanno delle motivazioni profonde, nascono da quella ferita. Ho tentato di dare loro una chance, una possibilità di riscatto”.

“Credo che questa storia sia molto vicina alla nostra esperienza quotidiana. Guardando lo spettacolo, chiunque può sentire in qualche modo che questa vicenda lo riguarda. In molte affermazioni e riflessioni dei personaggi si può intravedere qualcosa di sé, qualcosa in cui riconoscersi”, conclude la regista.

Una produzione Teatro Franco Parenti e Fondazione Teatro della Toscana.

“Amletò”: la tragedia trasportata nella Francia degli anni Trenta

Un Amleto visivo, quasi senza parole, ambientato nella Francia degli anni Trenta. Giancarlo Sepe dirige al Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ di Scandicci, mercoledì 21 e giovedì 22 marzo, alle ore 21, Amletò – Gravi incomprensioni all’Hotel du Nord.

“La famiglia di Elsinore, in viaggio, approda a Parigi – afferma Sepe – e prende posto nell’hotel sul canale di Saint-Martin, l’Hotel du Nord del film omonimo di Marcel Carnè, così pieno d’umido che non fa rimpiangere i freddi della gelida Danimarca. Dubbia reputazione hanno gli avventori di quell’albergo alla buona, che ospita ebrei in fuga dalla Germania nazista, esiliati politici, prostitute e protettori, poeti e adolescenti con il complesso edipico”.

La storia di Amleto viene narrata come da I parenti terribili di Jean Cocteau, piena di tradimenti e gelosie, rimpianti e vendette, morti violente e valzer “musette”, amori inconfessabili e strane apparizioni.

Con Guido Targetti, Federica Stefanelli, Manuel D’Amario, Pietro Pace, Emanuela Panatta, Sonia Bertin, Federico Citracca, Cesare D’Arco. Una produzione Teatro La Comunità.

Giancarlo Sepe riscrive un classico del teatro come l’Amleto di Shakespeare con quel suo riconoscibile stile che include la passione per il cinema e per la musica, presenti in ogni suo spettacolo. E assomiglia a un set cinematografico, anche nel montaggio, l’allestimento di Amletò – Gravi incomprensioni all’Hotel du Nord, al Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ di Scandicci mercoledì 21 e giovedì 22 marzo, ricco di allusioni e suggestioni visive, ricreate nelle atmosfere suggerite dalle luci, dal gioco di movimenti, attrezzerie e oggetti manovrati a vista.

“La storia del principe Amleto – spiega Sepe – è trasportata nel 1939 a Parigi (quella “ò” accentata lo fa essere, a pieno titolo, francese), dove tutti i personaggi shakespeariani, scappando dall’invasione nazista, si spostano attraversando, carponi, un piccolo ponte, e portando con sé i propri effetti personali. Si ritrovano tutti in una periferia parigina degradata, nei pressi dell’Hotel du Nord. Quello del film omonimo di Marcel Carnè”.

Ed è al cinema del regista francese e a quello di Jean-Luis Barrault di Les enfants du paradis, che Giancarlo Sepe rende omaggio. Qui le sue invenzioni sceniche sembrano trovare il campo migliore e fertile ispirazione, come anche l’aver inventato una sorta di gramelot con cui parlano gli attori, una parodia del francese pienamente comprensibile per assonanze, cadenze, onomatopee. Poco recitato, lo spettacolo vive di pantomime e di coreografie accennate, dentro folate avvolgenti di musica. Con Guido Targetti (Amletò), Federica Stefanelli (Ofelia), Manuel D’Amario (Re), Pietro Pace (Claudio), Emanuela Panatta (Gertrude), Sonia Bertin (Rose), Federico Citracca (Guillame), Cesare D’Arco (Laertè). Le scene e i costumi sono di Carlo De Marino, le musiche di Davide Mastrogiovanni in collaborazione con Harmonia Team, le luci di Guido Pizzuti. Una produzione Teatro La Comunità.

“Hotel du nord: gente che va e gente che sparisce – prosegue il regista – improvvisi duelli mortali tra contendenti amorosi, sicari maldestri, morti accidentali e sogni, tanti sogni. Letti d’amore e di morte che vagano nella sera d’estate al chiaro di luna al suono delle voci di Arletty, Josephine Baker e di Marguerite Boule’ch, più nota come Fréhel. Canzoni d’amore e di disperazione, che Amleto soffre e vive sullo sfondo di una società impazzita, che corre, balla e sta per svanire sotto i colpi di una guerra sanguinaria”.

Laerte dice alla sorella Ofelia di non innamorarsi di un ipocondriaco visionario, Amleto sogna la morte del padre a cui aveva ‘concesso’ di amare la madre Gertrude, suo unico amore: ma che Ofelia e Ofelia: egli ama la madre e basta. Ama la madre che ama il fratello del marito ucciso: Claudio. La spia mentre indossa le sue calze di seta, ricorda i balli sulla terrazza di notte, appena schiariti da un filare di lampadine colorate, guarda le foto del suo bellissimo battesimo tutto di bianco e la partenza del padre per la guerra, vero eroe, ripagato con il tradimento e la morte infertagli dal fratello appena rimesso piede sul suolo natio.

A quella morte Amleto reagisce malissimo, gira per le stanze e le strade della città con l’ingrandimento della foto del padre, come fosse un novello San Luigi.

“Essere o non essere l’uomo del destino – conclude Giancarlo Sepe – colui che vendicherà non solo il padre ucciso a tradimento, ma soprattutto il suo amore per Gertrude, incauta madre, incauta moglie e, forse, inconsapevole assassina. Tutto troverà la sua risposta nella festa mascherata organizzata nell’Hotel du Nord… chissà! La guerra che scoppia alla fine dello spettacolo svuoterà di colpo l’albergo, mentre Amleto, solo, si aggirerà tra valigie e maschere abbandonate in terra, alla rinfusa, come dei corpi senza più vita”.

Tutte le sfaccettature dell’animo umano in Uno zio Vanja, al Teatro Era

Al Teatro Era di Pontedera va in scena, sabato 10 marzo alle ore 21 e domenica 11 marzo alle ore 17.30, il malinconico spettacolo Uno zio Vanja di Čechov nell’adattamento di Letizia Russo. Con Milena Mancini, Lorenzo Gioielli, Nina Torresi, Andrea Caimmi, Alessandra Costanzo, Nina Raia e la regia di Vinicio Marchioni.

Rileggendo il testo, Marchioni ha trovato che la vecchia piantagione piena di debiti al centro del dramma ricordasse la crisi del nostro Paese, la nostra mancanza di fiducia e speranza. In questa nuova versione di Zio Vanja, i protagonisti ereditano un teatro di provincia, in uno dei luoghi fortemente colpiti dagli ultimi terremoti. Quelle macerie sono una metafora della nostra situazione: non per parlarne in modo negativo, ma per cercare la marcia giusta per ripartire.

In fondo è a questo che Čechov ci invita: capire quanto sia meschina l’esistenza borghese, così priva di slanci e di entusiasmi, così mediocre e vuota, per inventarsene una diversa. E uscire dalla gabbia che ci siamo fabbricati per diventare uomini migliori. Le scene sono di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Milena Mancini e Concetta Iannelli, le musiche di Pino Marino, le luci di Marco Palmieri. Una produzione Khora.teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

i vive, semplicemente (o ci si avvicina alla morte giorno dopo giorno), e nel vivere si soffre, in un grigiore permanente e alienante. “Volevo solo dire alla gente – affermò Čechov – in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa”. È il 26 ottobre del 1899 quando va in scena per la prima volta al Teatro d’arte di Mosca Zio Vanja, oggi considerato                                                                                   uno dei drammi più importanti dello scrittore russo.

Il suo stile, modellato sul tragicomico del quotidiano, restituisce con fascino irripetibile e struggente le complesse sfaccettature dell’esistenza umana. Lo spettacolo nell’adattamento di Letizia Russo (da un’idea di Vinicio Marchioni e Milena Mancini) con il titolo Uno zio Vanja, fa perno su precise note di contemporaneità della scrittura čechoviana, per esaltarne la straordinaria attualità creativa, nell’assoluto rispetto delle dinamiche tra i personaggi e dei dialoghi del testo classico.

Questa riedizione di Zio Vanja vuole essere uno specchio in cui possiamo vedere riflessa la nostra incapacità (o non volontà) di essere felici. Può essere una visione sgradevole, ma gli specchi hanno un lato salutare: se quello che appare non ci piace, possiamo tentare di cambiarlo. Vinicio Marchioni dirige il lavoro e interpreta zio Vanja, con Francesco Montanari (Astrov), Milena Mancini (Elena), Lorenzo Gioielli (Serebrijakov), Nina Torresi (Sonja), Andrea Caimmi (Telegin), Alessandra Costanzo (Marija), Nina Raia (Marina). Le scene sono di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Milena Mancini e Concetta Iannelli, le musiche di Pino Marino, le luci di Marco Palmieri. Una produzione Khora.teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

Protagonista dei quattro atti originali è Ivan Petrovic Voiniskij, zio Vanja appunto, che per anni ha amministrato con scrupolo e abnegazione la tenuta della nipote Sonja versandone i redditi al cognato, il professor Serebrjakov, vedovo di sua sorella e padre di Sonja. Unica amicizia nella grigia esistenza di Vanja e di Sonja è quella del medico Astrov, amato senza speranza da Sonja. Per il resto sono tutti devoti al professore, che credono un genio. Serebrjakov si stabilisce con i due, insieme alla seconda moglie, Elena. Le illusioni sono presto distrutte: alla rivelazione che l’illustre professore è solo un mediocre sfacciatamente ingrato, zio Vanja sembra ribellarsi: in un momento d’ira arriva a sparargli, senza colpirlo. Nemmeno questo gesto estrema modifica il destino di Vanja e di Sonja, che riprendono la loro vita rassegnata e dimessa, sempre inviando le rendite della tenuta al professore tornato in città con la moglie.

Note di Regia: “I temi universali della famiglia, dell’arte, dell’amore, dell’ambizione e del fallimento, inseriti in una proprietà ereditata dai protagonisti della vicenda di Zio Vanja, sono il centro della messa in scena. Cosa resta delle nostre ambizioni con il passare della vita? E se fossimo in Italia oggi, anziché nella Russia di fine 800? La nostra analisi del capolavoro čechoviano parte da queste due domande, che aprono squarci di riflessioni profondissime, attraverso quello sguardo insieme compassionevole, cinico e ironico proprio di Anton Čechov, finalizzato a mettere in scena gli uomini per quello che sono, non per come dovrebbero essere.

 

Il realismo fantastico di Gogol’ è al Teatro ‘Mila Pieralli’

Da domani 2 marzo a domenica 11 marzo, va in scena al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, in prima nazionale, Appunti di un pazzo, dal quasi omonimo racconto Il diario di un pazzo, di Gogol’.

Una produzione Fondazione Teatro della Toscana, Teatro dell’Elce, Cantiere Obraz, in collaborazione con Postop Teatro, con il sostegno produttivo di Armunia Festival Costa degli Etruschi, con il sostegno di Regione Toscana, con la regia di Alessio Bergamo.

In uno spazio ridisegnato per l’occasione, con gli spettatori direttamente in scena con gli attori, Alessio Bergamo e un gruppo di sette interpreti di scuola stanislavskijana, convergenti nell’interesse per il lavoro del maestro russo Anatolij Vasil’ev, hanno creato un carosello di apparizioni surreali, umoristiche e anche demoniache, che guidano il pubblico nella mente (e i suoi meandri) del consigliere titolare Aksentij Ivanovič Popryšin.

“Per Stanislavskij in scena tutto deve essere reale – afferma Bergamo – Vasil’ev, di cui sono stato collaboratore, ha fatto una rivoluzione copernicana: ciò che accade sul palcoscenico è una realtà di ‘gioco’. In Appunti di un pazzo gli attori Daniele Caini, Alessandra Comanducci, Domenico Cucinotta, Massimiliano Cutrera, Marco Di Costanzo, Erik Haglund, Stefano Parigi, danno vita a una fantasmagoria piena di senso che condividono a stretto contatto con gli spettatori, accolti in sala dallo stesso Popryšin, interpretato da Cucinotta”.

Popryšin è un impiegato ordinario che appunta sul suo diario pensieri e gesti di una mente straordinaria. Si innamora della figlia di Sua Eccellenza, ma scopre che lei non lo ama leggendo le lettere del suo cagnolino. Poi apprende di essere il re di Spagna, ma esita a presentarsi a corte prima che vengano da lui i deputati. Fino all’inaspettato e sconvolgente finale.

Grande viaggiatore e amante dell’Italia, Nikolaj Vasil’evič Gogol’ è considerato uno dei padri della letteratura russa, precursore del realismo dell’Ottocento maturo, a cui mescola una vena fantastica e un infaticabile spirito satirico, che vira a tratti nel grottesco. Gogol’ pubblica Il diario di un pazzo nel 1835, che viene inserito nel 1842 nella celebre raccolta dei Racconti di Pietroburgo.

“La novella di Gogol’ altro non è che una parabola sotto forma di scherzo – sostiene Bergamo – una riflessione sul rapporto tra l’uomo e la sua immagine sociale. Un tema inevitabile e oggi asfissiante, visto il moltiplicarsi delle immagini che quotidianamente, come in una camera di specchi, ci provocano scissioni interiori sempre più profonde, ci inducono a non farci capire più dove siamo noi e dove siano gli altri. Lo spettacolo va oltre la poetica di un teatro di rappresentazione tradizionale e lancia un ponte (o una sfida) verso la performance”.

Aksentij Ivanovič Popryšin, interpretato da Domenico Cucinotta, è un impiegato statale al grado più basso della gerarchia impiegatizia. Sta seduto nell’anticamera dell’appartamento di servizio del suo capo. Durante la giornata attende alle sue mansioni principali: porge gli incartamenti e tempera le penne per Sua Eccellenza e, a omaggio, per la figlia di Sua Eccellenza. Oltre la porta pulsa la vita sgargiante, misteriosa e inaccessibile delle alte sfere della società. Accadono cose incomprensibili alla mente dei semplici. È necessario penetrare, scoprire, indagare se si vuole comprendere, se si vuole ascendere. Popryšin non è persona priva di intraprendenza e indaga, penetra, affronta decine di visioni, impersonate da Daniele Caini, Alessandra Comanducci, Massimiliano Cutrera, Marco Di Costanzo, Erik Haglund, Stefano Parigi.

Il cast, accumunato da un’unica origine, la scuola di matrice stanislavskijana, e convergente nell’interesse per il lavoro del maestro russo Anatolij Vasil’ev, assecondano il taglio surreale-metafisico di Gogol’, affrontando in termini pratici la questione di cosa sia il fantastico in scena e di quali rapporti esso abbia con la presenza dell’attore. Alessio Bergamo, regista, studioso, docente di Storia dello spettacolo in alcuni atenei italiani, è il curatore dell’unico volume finora uscito in Italia di Vasil’ev (autore, regista e teorico teatrale di cui Bergamo è stato collaboratore).

“L’immagine che abbiamo di noi e che, nella realtà, non ci corrisponde del tutto – spiega – è un riferimento di ‘gioco’ costante all’interno di Appunti di un pazzo. Popryšin sogna di essere qualcuno, ma questi sogni si svincolano da lui e gli riappaiono sotto forma di demoni. Quando si fa uno sgambetto a volte il malcapitato, invece di cadere, prende velocità per restare in piedi: è ciò che succede a Popryšin, gli ‘sgambetti’ dei suoi deliri gli fanno prendere sempre più velocità, fino ad arrivare a un finale davvero a sorpresa”.

È difficile capire quale sia la verità delle cose. Comprendere è un atto intellettuale e dove c’è intelletto c’è immaginazione e dove c’è immaginazione è facile non distinguere più la realtà. Popryšin vivrà eventi straordinari che lo porteranno lontano dalla patria (o forse no), innalzato a cariche altissime (o forse no), implicato in intrighi di Stato, clamorosi trionfi, gloriose imprese e terribili persecuzioni. E a una, una sola, autentica rivelazione.

Lo spazio scenico è di Irina Dolgova e Alessio Bergamo, gli oggetti e i costumi di Thomas Harris, i contributi sonori di Andrea Pistolesi. Una produzione Fondazione Teatro della Toscana, Teatro dell’Elce, Cantiere Obraz, in collaborazione con Postop Teatro, con il sostegno produttivo di Armunia Festival Costa degli Etruschi, con il sostegno di Regione Toscana. Una prima versione di Appunti di un pazzo ha debuttato nel 2016 per “Il Sole d’Inverno”, la stagione teatrale invernale di Fiesole promossa dal Teatro Solare.

“Attratto dai modelli di successo della società e pronto a conformarsi a essi, ma costretto in una posizione subalterna, Aksentij Ivanovic Popryšin – conclude Alessio Bergamo – si lascia cadere in una spirale di pazzia che esplode nella delirante prospettiva di un’improbabile rivalsa sui suoi superiori, avversari e oppressori immaginari. L’onirico diventa reale e il suo progressivo impazzimento si trasforma nel conflitto di un malato contro una realtà organizzata in modo più folle di lui”.

‘La classe operaia va in paradiso’ e alla Pergola

La classe operaia va in paradiso andrà in scena al Teatro della Pergola da domani a domenica 4 marzo, ore 20:45 e domenica ore 15:45, con la regia di Claudio Longhi, la drammaturgia di Paolo Di Paolo e l’interpretazione dell’ensemble di attori che la stagione scorsa ha raccolto successi ed entusiasmi con la trilogia Istruzioni per non morire in pace.

La produzione è ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, e lo spettacolo, costruito a partire dalla sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, torna allo sguardo eterodosso e straniante della pellicola originaria con protagonista Gian Maria Volonté per provare a riflettere sulla recente storia del nostro Paese.“Riattraversiamo l’affresco grottesco diretto da Petri nel 1971 – afferma Claudio Longhi –con lo sguardo disilluso del nostro presente, a quasi dieci anni dall’ultima crisi economica mondiale. Se l’inferno umido e grasso della fabbrica cottimista dell’operaio Lulù Massa appare ben lontano dagli asettici e sterilizzati spazi industriali o dai lindi uffici dei precari odierni, lo stesso non è del ritmo ossessionante e costrittivo di una quotidianità, allora e ancora oggi, alienata”.

Venerdì 2 marzo, ore 18, Claudio Longhi e tutta la compagnia, formata da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini, incontrano il pubblico alla Pergola. Coordina Matteo Brighenti. L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.

Alla sua uscita nelle sale cinematografiche nel 1971, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri riuscì nella difficile impresa di mettere d’accordo gli opposti. Industriali, sindacalisti, studenti, nonché alcuni dei critici cinematografici più impegnati dell’epoca, si ritrovarono parte di uno strano fronte comune contro il film. E la pellicola non ha così avuto una grande fortuna in Italia, nonostante la Palma d’Oro a Cannes e la galleria di stelle presenti, fra cui Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Salvo Randone.

A quasi cinquant’anni dal suo debutto sui grandi schermi, il regista Claudio Longhi ha scelto di tornare allo sguardo scandaloso ed ‘eterodosso’, ferocemente grottesco, del film di Petri, per provare a riflettere sulla recente storia del nostro Paese, con le sue ritornanti accensioni utopiche e i suoi successivi bruschi risvegli. Al Teatro della Pergola da martedì 27 febbraio a domenica 4 marzo.

“Sulla coda del film, in una breve e significativa scena, l’operaio Lulù Massa – spiega Longhi – girovaga per la sua casa catalogando a uno a uno gli oggetti lì presenti e recitando una personale, e straniante, litania domestica: a ogni cosa risponde un costo, a ogni costo delle ore lavoro. Mutatis mutandis, nella sua concisione quella scena, dalle tinte bluastre e dai toni buffi, parla molto alla (e della) nostra epoca dominata dal consumo ultraveloce – espresso e spersonalizzante grazie al potere della rete –, affetta da una sindrome bulimica permanente mentre, al contrario, è risucchiata in vuoto ideologico spinto”.

La vicenda dell’operaio Lulù Massa, stakanovista odiato dai colleghi, osannato e sfruttato dalla fabbrica BAN, che perso un dito scopre per un istante la coscienza di classe, si intreccia qui con le vicende che hanno accompagnato la genesi e la ricezione contestatissima del film. Lo spettacolo, infatti, scritto da Paolo Di Paolo, è costruito attorno non solo alla sceneggiatura originale di Elio Petri e Ugo Pirro, ma anche ai materiali che ripercorrono la loro officina creativa, a come il film è arrivato al pubblico di ieri e di oggi, e a piccoli capolavori della letteratura italiana di quegli anni.

Infatti, la compagnia, formata da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, accanto ai grotteschi personaggi della pellicola alterna sulla scena lo sceneggiatore e il regista stessi, qualche spettatore e alcune figure curiose e identificative della nostra letteratura a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Il tutto, poi, è intessuto dentro le seducenti e algide geometrie musicali di Vivaldi, rielaborate da Filippo Zattini originalmente per l’occasione e ‘rotte’ qua e là da canzoni dolci e amare dell’Italia alla fine del Boom eseguite dal vivo da tutti gli attori. Le scene sono di Guia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Vincenzo Bonaffini, i video di Riccardo Frati. La produzione è ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.

“Il cinema è un linguaggio eminentemente visivo – interviene Claudio Longhi – mentre il teatro che ho sempre praticato usa fondamentalmente la parola. Noi abbiamo agito molto sulla drammaturgia, trasformando alcune sequenze del film in racconti, quindi in monologhi, più che in dialoghi diretti. Spazialmente abbiamo utilizzato degli elementi scenici, come un nastro trasportatore, che ci consentono di alludere alla catena di montaggio e di restituire la dinamica dei movimenti in macchina. E poi uno schermo, su cui vengono proiettate delle immagini storiche, alcune sequenze fisiche non solo del film, agisce quasi da diaframma, come una macchina fotografica o una cinepresa, aprendo varie possibilità nella narrazione”.

Il film di Petri ha il merito di aver provato ad abbozzare una narrazione dell’Italia attraverso il lavoro, oltre i furori utopici degli anni febbrili che seguirono il Sessantotto. Un combinato di stili, con una sceneggiatura che qua e là strizza l’occhio alla commedia all’italiana, ma si lascia tentare, nel suo impasto cromatico, dall’estremismo espressionista, scandito dalla musica dura e pervasiva di Ennio Morricone. Ora lo spettacolo teatrale intende riflettere su quanto quell’affresco grottesco immaginato da Petri nel 1971 sia più o meno distante da noi. Un tempo, il nostro, post-moderno e post-ideologico, che fatica a riconoscere in modo netto i tratti di una qualsivoglia ‘classe operaia’, dispersa e nascosta dietro gli innumerevoli volti del lavoro ‘flessibile’.

“Si è svuotato il senso stesso della parola ‘rivoluzione’ – conclude Longhi – quindi il Paradiso che adesso si prospetta, forse, si può identificare con una promozione a una condizione borghese di fatto irraggiungibile. Però, quello che voglio aggiungere, è che il film ritrae una condizione di angoscia profonda e invece lo spettacolo ricalca il film, ma senza perdere quel senso di divertimento che credo sia condizione imprescindibile di ogni esperienza teatrale”.

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