“Natura Morta”, di Giorgio Morandi

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    “Natura Morta”, di Giorgio Morandi
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    L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti “Natura Morta”, di Giorgio Morandi. (Olio su tela 1937-1938)

    Eccoci di nuovo qui, davanti a un gruppo di oggetti ben disposti sul piano con millimetrica precisione, facendo molta attenzione al risultato figurativo per raggiungere una situazione immodificabile e irripetibile. Siamo di nuovo qui, abbiamo deciso di fermare per un attimo il tempo. La terra gira alla sua solita velocità, la gente parla, parla,  lavora, suda, impreca. Si nasce e si muore. Tutto si muove. L’eternità possiamo solo immaginarla, pensarla astrattamente, non riusciremo mai a toccarla con mano. Tuttavia, può capitare di averne la sensazione, di sentirla tra noi e in noi, di poterla percepire come cosa reale, circoscritta in qualcosa che ci sta di fronte. Quando si guarda una natura morta di Giorgio Morandi, come questa del 1937-1938, l’eternità è davanti a noi. Tutto gira, eppure quelle bottiglie, quelle povere ciotole di terraglia, quei vasi dai colli allungati come imbuti rovesciati, quelle strutture formali rivestite di quotidiana familiarità, sono lì, immobili, visibilmente fuori del tempo che scorre, ma con noi. Ecco il miracolo, quelle cose sono parte di noi, stanno con noi appartengono come noi al mondo della vita. L’eternità, l’unica eternità raggiungibile in questa nostra dimensione esistenziale, in cui siamo fatti di carne e di spirito, di concetti e sensazioni, è adesso raggiungibile aprendosi a quest’immagine, a questa natura morta. Eternità conseguita facendo un passo verso l’invisibile e l’impensabile senza essere costretti a lasciare questo mondo che si regge sulle sensazioni e sulle emozioni, sulle percezioni e i sentimenti. Siamo esseri umani, Morandi ce lo ricorda sempre. Siamo qualcosa di più, siamo altro, perché siamo già in contatto con l’eternità: siamo infinito.

    Morandi ha il coraggio di non cambiare strumenti. Le stesse bottiglie e gli stessi contenitori. I colori di base non sono cambiati. Eppure la musica è sempre diversa. Altri sono i toni, le sfumature, la porosità, il distendersi e micro-particellizzarsi del tocco che sposa atomo per atomo, pigmento e luce. Morandi ci mostra delle cose facendoci riconquistare del tempo perduto, quel tempo disperso nel giro di vite, dimenticandoci dell’eternità, questo avviene perché nel quadro sussiste un misterioso e miracoloso equilibrio tra forme, misure e volumi che ha qualcosa di musicale,  un tono di luce che si sparge su tutto e che tutto modella con il tocco di un maestro concertatore. Una luce che è un soffio, come quel pneuma che si dice dette vita alla materia, un’energia di neutrini che si insinua tra le cose, come un sentimento di compassione che solo può rendere più umana l’immagine astratta di una vita, la durata di una primo amore.  A Morandi tutto questo riesce perché è un uomo antico, nel senso che “ viene da una vita, da un costume, da un sentimento antico, non per recupero di cultura, ma per una nascosta continuità di civiltà e costumi”.  Nella sua solitudine, nel suo silenzio, Morandi resta un uomo del nostro tempo: un grande, singolare uomo del nostro tempo, che sembra affacciarsi alla sua epoca, in quella veste di spettatore che parve essere, nella loro contemporaneità, quella di Leopardi o di  Corot. Un analogo dubbio, o sfiducia, è in questi artisti circa le “magnifiche sorti e progressive” dell’età in cui hanno avuto in sorte di vivere. Ed è grazie a questa sfiducia nel progredire affannato del tempo moderno che Morandi ha potuto rallentare il battito del cuore, fermarsi sulla soglia, toccare con mano l’eternità, fissare il vero immobile splendore della cosa, nel flusso confuso dell’esistenza.

    A tal proposito Francesco Arcangeli ci dice che davanti a dipinti come questi di Morandi:

    Possiamo abbandonarci al piacere elementare di guardare questa natura morta come, elementarmente e tranquillamente, guardiamo degli oggetti di natura: il sentimento che proviamo di fronte ad essa si lega al sentimento stesso della pittura; cioè emozione pura di fronte a una cosa che si vede e che per la sua sola presenza ci fa riaffondare le radici di quel mondo dove i sensi e lo spirito sono così vicini da scambiarsi senza fatica. Un sentimento primevo, originario: guardare ed esprimere per il pittore, guardare e commuoversi per lo spettatore”.

    Una situazione che, forse, abbiamo avuto modo di riscoprire in questi giorni, proprio perché abbiamo avuto la possibilità di provare una seconda vita, per cominciare a esistere davvero.  Abbiamo capito che c’è una soglia. Che la nostra vera vita è qui, che dobbiamo solo imparare a riconoscerla e scoprire che la meraviglia dell’eternità è già qui.

    Copyright Sergio Risaliti
    Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.
    Montaggio video: Antonella Nicola