“Apocalisse” di Scipione

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    “Apocalisse” di Scipione
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    “L’arte alla radio, con il direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti. “Apocalisse” di Scipione (Olio su tavola, 1930).

    Ci sono artisti che come eroi belli salgono al cielo prestissimo. Bruciano intensamente la loro vita e partoriscono opere in uno stato di grazia luminosa, anche se conoscono l’inferno in terra. Gino Bonichi (Macerata, 1904 – Arco, 1933), in arte Scipione, l’autore di Apocalisse, è uno di questi. Quando se ne va, ha appena 29 anni, ma ha fatto in tempo a dipingere opere arroventate, di un misticismo che sanguina oro dall’anima e piombo dalla carne.

    «Iddio salvami – scrive nelle ultime pagine del suo Diario –  caccia i miei nemici, aiutami, perdona al tuo figliolo. Io non sono degno di te, ma voglio salvarmi da questo abisso da cui non si può risalire. Castigami, che io senta le mie colpe in vita, ma voglio la salvezza, voglio dormire puro come il pane, voglio gettarmi sulla terra senza contaminarla. Fa’ che io possa avvicinarmi a te, dammi la forza per vincere». Implora salvezza, Scipione, che si cibò di arte, letteratura e poesia.

    La nostra Apocalisse sembra filtrata dal testo di Giovanni. Vi si trovano tre uomini nudi, dipinti come alieni sulla terra arsa e senza vita, spazzata da un vento sterile. L’orizzonte è segnato da pochi alberi, dai tronchi secchi, alzati quasi a sostenere il cielo cupo che si eleva oltre la fine del quadro. I tre esseri apocalittici guardano verso l’alto sprigionando rossi raggi dagli occhi. Un nugolo luminoso appare dall’alto a sinistra dell’immagine. Il senso di tutto questo è sospeso, tra una tragica fine del tempo e un futuro apocalittico. Dolore, pena, si mescolano a speranza e timore, a indugio e accettazione. Le braccia leggermente aperte sui fianchi, ci dicono che le tre figure potrebbero essere consapevoli, disposti a ricevere segni ed eventi. E forse i raggi incandescenti appartengono al Verbo che illumina e prepara, rafforza e purifica. Tornano alla mente alcuni versi di Scipione a chiudere l’improbabile spiegazione di un quadro che supera ogni possibile decifrazione: «Tutto ci abbandona a nostra insaputa. | Il sangue corre nel cerchio chiuso. | Le membra del giovane sono belle, | la sua mente è chiara e serena, | ma i vizi degli altri scrivono in nero | e nei laghi degli occhi | nuotano le anguille cattive. | La canna leggera, verde e bianca, | non sa dove appoggiarsi | ma non può cadere. | Le giunture si piegano con mollezza: | tutto si realizza e tutto si perde».

    Copyright Sergio Risaliti
    Immagine: Museo Novecento, Raccolta Alberto Della Ragione. Fototeca dei Musei Civici Fiorentini.