Disco della Settimana: Robert Finley

Un po’ come Charles Bradley: grande talento, un po’ di sfortuna, poi arriva un giovane produttore a costruire la giusta cornice. Per Robert Finley è stato Dan Auerbach dei Black Keys l’artefice della rinascita.

Goin’ Platinum! è il suo secondo album, uscito su Easy Eye Sound, etichetta creata da Dan Auerbach dei Black Keys, il primo dell’etichetta a essere pubblicato e distribuito da Nonesuch Records / Warner Music Group.
L’album cattura il cantante al suo meglio, attorniato da storici musicisti di altissimo livello a fare da supporto alla sua voce particolare. Tra coloro che hanno collaborato alla realizzazione sonora di questo disco il batterista Gene Chrisman (già con Elvis Presley e Aretha Franklin), il tastierista Bobby Woods (JJ Cale, Bobby Womack), i trombettisti della Preservation Hall e il leggendario chitarrista Duane Eddy.
Goin’ Platinum! è stato scritto e prodotto insieme a Dan Auerbach e vede anche la collaborazione di cantautori leggendari quali John Prine, Nick Lowe e Pat McLaughlin. File under “retromania”.

Così ne parla Leo Giovannini su Loudd:

Paradigmatico il disco che vi propongo oggi.
La sua genesi è la classica storia americana: il personaggio di cui parleremo, Robert Finley, ma potrebbe essere chiunque, ad 11 anni riceve dal padre (famiglia non agiata, della Louisiana, of course) i soldi per comprarsi un paio di scarpe, ma Robert, già appassionatissimo di musica, userà quei soldi per comprarsi una chitarra.
All’età di 17 anni si arruolerà nell’esercito verrà mandato di stanza in Germania, dove metterà a frutto la sua passione per la musica formando una band e allietando i suoi commilitoni. Finita la ferma e tornato in patria andrà di casa discografica in casa discografica a cercare uno straccio di contratto, cosa che gli sarà negata. Troverà impiego come muratore e in altri lavori manuali ma continuerà ad esibirsi come cantante in quei locali da panze gonfie di birra e costine di maiale.
Un peccato, perché Finley la voce ce l’ha e pure bella, ma capite bene che nel 1967 o giù di lì la musica black era tutto un fiorire di artisti superlativi e quindi era anche molto facile beccarsi una porta in faccia.
Arrivati ad oggi il nostro buon Robert viene scoperto da Dan Auerbach dei Black Keys che fulminato come San Paolo sulla via di Damasco, si innamora della voce di Finley, lo mette sotto contratto e nell’anno di grazia 2017, all’età di 70 anni e dintorni, il cantante della Louisiana ha il suo posto al sole in forma di disco (vinile, cd, mp3, streaming e bla bla bla).
Che poi “Goin’ Platinum!” è davvero un signor disco, dove soul e blues la fanno da padrone: ben cantato, ben suonato e, qui casca l’asino, ben registrato, anzi, registrato e prodotto come se fosse uscito cinquant’anni fa.
E vince facile, come detto: nella penuria di prodotti black che si ammantano di una finta avanguardia, cosa c’è di meglio che tornare ai “good ol’ days”, intorno ad un braciere acceso che cuoce bistecche t-bone, salsicce di fegato, pannocchie di mais , il tutto annaffiato da boccali di birra ?

Così lo accoglie Enzo Curelli sul suo blog:
A volte abbiamo bisogno delle favole per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di Robert Finley non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella di Seasick Steve: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), con James Brown, B.B. King e i Temptations in testa. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce che la sua vera strada è la musica. La strada è però dura e in salita. Fino a due anni fa girava vie secondarie e piccoli locali mentre ora a 64 anni si trova a registrare un disco insieme a Gene Chrisman (Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy (suo il solo di chitarra in ‘You Don’t Have To Do Right’), Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don’t Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. Già è proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni sono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad una orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach. Black Keys meets blues singer, quello che ne esce è un magnetico incrocio tra R&B, swamp blues (‘Three Jumpers’) retro soul di casa Nashville e il suo è nome Robert Finley (provate il suo falsetto in ‘Holy Wine’). Lui è un personaggio, il disco senza un’età apparente è da ascoltare per la varietà stilistiche con cui è stato assemblato. L’ultimo colpo di questo 2017.

Disco della Settimana: Blitzen Trapper “Wild and Reckless”

Wild And Reckless è il nome del musical che la band ha messo in scena ad inizio anno nella città natale, Portland. L’album contiene 7 brani estratti dallo spettacolo teatrale e 5 inediti. L’album era stato anticipato dai singoli Rebel e dall’omonima Wild And Reckless.

Sono una delle più intense e raffinate country rock band degli States, dal 2003 raccontano il quotidiano della grande provincia americana con uno sguardo partecipato e tagliente, nel solco di Tom Petty o degli Eagles ma con una contemplativa sensibilità «cosmic» che rimanda a Gram Parsons o a Crosby Stills Nash and Young. «Wild and reckless» (che sin dalla copertina richiama il Neil Young “modernista” di “Trans”) è l’album numero 9 della discografia e nasce dalla rock opera scritta dal gruppo, una storia di corruzione, droghe e amori finiti male.

Così se ne parla sulla specializzata Rootshighway:

Veterani della scena rock della costa ovest americana, passati per le maglie di importanti etichette come Sub Pop e Vagrant, i Blitzen Trapper di Eric Earley, deus ex machina del gruppo un po’ come fosse un Jeff Tweedy meno celebrato, sono una band dalle ambizioni mai nascoste. Nonostante possano apparire come “restauratori” di una certa classicità del genere, con mille riferimenti che li hanno a seconda dei casi imbrigliati nel genere Americana o in un più ampio indie rock, i Blitzen Trapper hanno spesso fatto perdere i punti di riferimento, giocando con le citazioni e miscelando cinquant’anni di rock’n’roll americano con intelligenza e imprevedibilità, accompagnati per giunta da un ottimo songwriter.

Wild and Reckless, nono disco di studio senza contare numeosi ep e live, non fa eccezione, seppure confermi la linea più “tradizionalista” ripresa dalla formazione a cominciare dal predecessore, All Across This Land. Questo zigzagare fra stili e ispirazioni certo comporta una resa sonora a corrente alternata, e se aggiungiamo il fatto che il qui presente album ha le velleità di un vero e proprio concept, allora ci rendiamo conto dei rischi che si sono presi Earley e compagni. Nato da una omonima piece teatrale, una sorta di musical incentrato sulla loro città di origine – Portland, Oregon – Wild and Reckless raccoglie sette brani di quel musical, andato in scena con la collaborazione della compagnia ‘Portland Center Stage’, e ne amplia la visuale arrivando alla dozzina finale che compone il disco. Lungo il percorso alcuni raccordi strumentali e orchestrazioni (Forever pt.1 e 2) e una sequenza di storie che interecciano temi drammatici come abuso di droga, crimine, disperazione ma anche romanticismi e ricordi sparsi che sembrano celebrare una Portland delle giovinezza, che i Blitzen Trapper tentano di rievocare con nostalgia.

L’esito musicale di questa piccola “rock opera”, che lo stesso Earley afferma di riallacciare a uno dei loro lavori più apprezzati, Furr, avvicenda ballate dal timbro mainstream rock settantesco, aggrappate alla lezione di Tom Petty (la stessa title track e una iniziale Rebel a cui manca solo una “s” plurale per completare l’opera…) e Bruce Springsteen (l’armonica di Stolen Hearts riecheggia The River e anche il titolo non scherza). Essendo tuttavia un quintetto dalla fantasia strumentale fuori delle solite gabbie dell’Americana, i Blitzen trapper sono abbastanza eccentrici per sgusciare fra chitarre glam, melodie californiane e passaggi pop che in Dance with Me, Love Live On, Baby Won’t Yoiu Turn Me On, persino nel funky sudista di When I’m Dying, ribadiscono la loro natura di abili saccheggiatori del passato senza per questo apparire sbiaditi replicanti.

Certo, Wild and Reckless a volte trasmette la sensazione di un progetto fin troppo ambizioso, con qualche giro a vuoto (l’acustica e monotona Joanna) e inutili orpelli (le citate parti strumentali e le interferenze che introducono No Man’s Land, brano interessante ma quasi irrisolto), eppure mantiene viva l’esperienza di una band giunta al suo quindicesimo anno di storia.

 

Così su Lloud:

“La storia recente dei Blitzen Trapper è la narrazione di un gruppo che, dopo 7 album di saliscendi tra prove interessanti (Furr del 2008) e flop dettati dalla mancanza di ispirazione (VII del 2013), nel 2015 partorisce un’opera coerente e finalmente a fuoco come All Across This Land. Con questo lavoro infatti i cinque di Portland si sono inseriti nel circus del rock americano più puro, senza vergognarsi di citare Bruce Springsteen, Bob Dylan e John Mellencamp, registrando un disco in cui agli echi nemmeno velati dei loro eroi musicali si sommava una bella scrittura, asciutta e dannatamente convincente. E siccome l’adagio recita che squadra vincente non si cambia, Wild And Reckless riparte da dove i Blitzen Trapper ci avevano lasciato, ossia con una bella dose di citazionismo filtrato dalla loro penna. Solo che stavolta la scrittura è meno ispirata e le citazioni rischiano di diventare copie scialbe degli originali. Andiamo per gradi.

“Rebel”, primo singolo estratto e opener dell’album, è veramente convincente e ci lascia illudere che ancora una volta Eric Earley & C. abbiamo trovato il modo per farci canticchiare ossessivamente i loro brani sotto la doccia. Un po’ Tom Petty e un po’ outlaw country, “Rebel” convince anche per un testo da romanzo di formazione, oltre che per il bel contrasto chitarra acustica/elettrica, l’una contrappasso dell’altra. Dopo questo convincente avvio iniziano i primi dolori. “Wild and Reckless”, title-track dalla quale ci si aspetta molto, rimane impigliata nell’indecisione tra un inizio melodico in cui il pianoforte apre le danze per poi esplodere in un tripudio di chitarre che sembrano incollate lì senza un’idea precisa. “Joanna” è talmente dylaniana da rasentare il deja vu, anche il titolo sembra copiato e comunque nonostante tutte le buone intenzioni l’interpretazione di Earley chitarra e voce non potrà mai raggiungere il pathos del Nobel per la Letteratura 2016 e così si finisce per annoiare l’ascoltatore. Dopo Dylan è quindi giunto il momento di onorare Bruce Springsteen con due brani, “No Man’s Land” e “Stolen Hearts”, che già dal titolo non promettono nulla di nuovo. La prima in realtà è una ballad che pur partendo con una piena citazione del Boss, cresce in maniera autonoma e risulta più gradevole di quanto previsto, un bozzetto ben costruito e soprattutto ben arrangiato. “Stolen Hearts” invece potrebbe essere uscita da Nebraska. Non è ovviamente una critica ma la voce di Earley non ha le profondità del buon Bruce e soprattutto sono lontani i fasti di “Nights Were Made For Love”, inserita nel precedente album, altrettanto springstiniana ma con un tripudio di suoni ed una convinzione che sembrano di un altro pianeta.

Questi Blitzen Trapper sembrano più svogliati, quasi tornati ai tempi di Furr, laddove però la formula folk era digerita in pieno e soprattutto i riferimenti erano meno ossessivi. Qui non si capisce se alle canzoni che Earley ha scritto per il nuovo lavoro risulti indigesto l’arrangiamento di una band intera, come avviene ad esempio in “Love Live On”, dove tutti sembrano ospiti, tranne la melodia e la voce del leader.

Quando invece i BT tornano a giocare con i riferimenti a briglia sciolta se ne riconoscono le potenzialità: “Dance With Me” strizza l’occhio a Tom Petty mettendoci in più una ironia latente e soprattutto “When I’m Dying” lascia di stucco con un approccio funk sudista che richiama vagamente i Little Feat (scusate se è poco) e che si candida, insieme a “Rebel” per essere una delle migliori canzoni della band. Bellissima ed intensa anche la conclusiva “Wind Don’t Always Blow” dove la chitarra solista taglia in due la canzone con un assolo che è come una lama bollente nel burro freddo.

In definitiva c’è un passo indietro rispetto al precedente All Across This Land ma era obiettivamente difficile ritrovare gli equilibri perfetti di quel disco. Di buono ci sono un paio di canzoni notevoli (“Rebel” e “When I’m Dying”), un gioco di chitarre mai banale e la sensazione che la band abbia tra le mani la potenzialità per esplodere. Di negativo stavolta ci sono i riferimenti che diventano inutili copie dell’originale e, soprattutto, l’impressione che non tutto sia stato messo a fuoco. In ogni caso oltre la sufficienza. Li attendo al varco per capire quale sarà la prossima mossa.”

Disco della settimana: Foto di Pura Gioia, album antologico degli Afterhours

Abbiamo scelto la raccolta “Foto di Pura Gioia” degli Afterhours perché si tratta di una band che Controradio segue sin dagli esordi, quando ancora Manuel Agnelli cantava in inglese. Oggi gli Afterhours festeggiano e celebrano trent’anni di attività con una grande raccolta che contiene 76 canzoni, e una serie di concerti che si concluderanno il prossimo 10 aprile al Forum di Assago.

L’antologia ripercorre l’intera carriera degli Afterhours, dal 45 giri di debutto “My Bit Boy” del 1987 fino a “Folfiri o Folfox”, ultimo disco della band uscito lo scorso anno, compreso un cd interamente dedicato a  rarità, brani inediti e cover.

Bianca feat Carmen Consoli è stato il primo singolo ad anticipare la raccolta. «Gli Afterhours e Carmen Consoli, negli anni, hanno percorso strade diverse ma parallele, hanno condiviso parte di un’esperienza musicale e una visione comune della musica. Era ora che finalmente si incontrassero sul piano comune della canzone d’autore». Con queste parole, Manuel Agnelli ha raccontato la collaborazione con la musicista siciliana che duetta con lui in una versione completamente riarrangiata.

Tracklist completa 

CD1

01. My Bit Boy – Remastered – (03:22)
02. Billie Serenade – Remastered – (05:42)
03. How We Divide Our Souls – Remastered – (03:27)
04. Confidence – Remastered – (05:51)
05. Glory – Of Soul Ignoring – Remastered – (03:28)
06. Slush – Remastered – (03:55)
07. Germi – Remastered – (02:37)
08. Dentro Marilyn – Remastered – (03:37)
09. Siete Proprio Dei Pulcini – Remastered – (02:47)
10. Ossigeno – Remastered – (04:05)
11. Strategie – Remastered – (04:03)
12. Pop – Remastered – (03:58)
13. 1.9.9.6. – Remastered – (03:41)
14. Male Di Miele – Remastered – (02:43)
15. Rapace – Remastered – (05:37)
16. Dea – Remastered – (01:42)
17. Pelle – Edit 2017 – (04:13)
18. Veleno – Remastered – (03:46)
19. Voglio Una Pelle Splendida – Remastered – (03:43)
20. Sui Giovani D’oggi Ci Scatarro Su – Remastered – (02:59)

CD2

01. Non E’ Per Sempre – Remastered – (03:58)
02. La Verità Che Ricordavo – Remastered – (03:15)
03. Non Si Esce Vivi Dagli Anni 80 – Remastered – (03:59)
04. Tutto Fa Un Po’ Male – Remastered – (04:08)
05. L’Estate – Remastered – (03:07)
06. La Sinfonia Dei Topi – Remastered – (02:59)
07. Quello Che Non C’è – Remastered – (03:40)
08. Bye Bye Bombay – Remastered – (06:14)
09. Sulle Labbra – Remastered – (04:23)
10. Varanasi Baby – Remastered – (04:36)
11. Bungee Jumping – Remastered – (06:11)
12. La Sottile Linea Bianca – Remastered – (05:31)
13. Ballata Per La Mia Piccola Iena – Remastered – (04:54)
14. Ci Sono Molti Modi – Remastered – (04:29)
15. La Vedova Bianca – Remastered – (03:59)
16. Male In Polvere – Remastered – (04:04)
17. Il Sangue Di Giuda – Remastered – (05:05)

CD3

01. E’ Solo Febbre – Remastered – (02:13)
02. I Milanesi Ammazzano Il Sabato – Remastered – (02:14)
03. Riprendere Berlino – Remastered – (04:04)
04. Musa Di Nessuno – Remastered – (02:17)
05. Tutto Domani – Remastered – (03:00)
06. Il Paese E’ Reale – (03:51)
07. La Tempesta E’ In Arrivo – (04:05)
08. Costruire Per Distruggere – (05:14)
09. Padania – (04:38)
10. Ci Sarà Una Bella Luce – (03:47)
11. Nostro Anche Se Ci Fa Male – (03:36)
12. Io So Chi Sono – (04:39)
13. Grande – (04:26)

CD 4 Inediti rarità

01 BIANCA feat. Carmen Consoli

02 LOVE ON SATURDAY NIGHT (1992) da Cocaine Head

03 STRATEGIE (Demo 1994)

04 INSIDE MARYLiN THREE TIMES (1990) da During Christine’s Sleep

05 MALE DI MIELE (1° demo 1996)

06 MIO FRATELLO è FIGLIO UNICO (vers. alt. 1993) (Gaetano)

07 SOMETHING I DON’T CARE ABOUT (inedito 1986)

08 PELLE (live acustico USA)

09 LA CANZONE POPOLARE (1994) (Fossati)

10 LA CANZONE DI MARINELLA (2003) (De Andrè)

11 SPRINGTIME’S FIRST DAY (inedito 1986)

12 SHADOWPLAY (mix alt. 1990) (Curtis-Morris-Hook-Sumner)

13 1.9.9.6. (1°demo 1996)

14 BALLAD FOR MY LITTLE HYENA (2006) da Ballads for Little Hyenas

15 SPARKLE (2006) da Ballads for Little Hyenas

16 FIFTEEN SECONDS (inedito 1986)

17 TELEVISIONE (1997)

18 SENZA TITOLO (inedito 1986)

19 ADESSO È FACILE (demo 2009)

Disco della Settimana: Morrissey “Low In High School”

Non è facile invecchiare, soprattutto per rockstar dalla personalità così ingombrante e provocatoria come quella dell’ex frontman di un gruppo fondamentale come The Smiths. Low in High School è un disco con luci ed ombre, ma estremamente personale e per niente indulgente.

Il disco, uscito il 17 novembre 2017, è stato pubblicato dalla BMG, in collaborazione con la Etienne Records, l’etichetta di proprietà dello stesso Morrissey. Prodotto da Joe Chiccarelli e composto dallo stesso Morrissey, in collaborazione con i musicisti della sua band, l’album è stato registrato presso gli studi Fabrique di Saint-Rémy-de-Provence, nel sud della Francia e in quelli romani del Forum Music Village, di proprietà di Ennio Morricone (è di quei giorni l’incidente con le nostre forze dell’ordine).

L’ambum è stato anticipato dai singoli Spent the Day in Bed e I Wish You Lonely.

Il passato con cui Morrissey si deve controntare non è certo poco impegnativo “considerato tra i più importanti precursori e innovatori della musica indie e britpop, Morrissey è ritenuto uno dei più grandi parolieri della storia della musica britannica e i suoi testi sono divenuti oggetto di studio accademico. Nel 2007, il quotidiano inglese Daily Telegraph l’ha inserito nella classifica dei cento geni viventi. Nel 2008 è stato invece annoverato tra i cento grandi cantanti di tutti i tempi, in una classifica stilata dalla rivista Rolling Stone” (wikipedia), artista per cui hanno aperto i concerti anche Lou Reed e Patti Smith, l’autore che persino Bowie scelse per una cover, eppure il restare all’altezza della sua fama di provocatore controcorrente lo sta portando sempre più spesso ad incrociare il percorso delle destre più reazionarie o islamofobe. Alcuni interpretano le posizioni controverse dell’artista come una capacità di cogliere il tormento sociale della working class ponendo domande più che suggerendo risposte.

Musicalmente è un album discontinuo ma non privo di picchi; rotto il sodalizio con dopo il divorzio con Alain Whyte (cui si doveva il risultato dei precedenti lavori) Stephen Patrick Morrissey ha costruito una band perfettamente allineata con le esigenze del musicista, a suo modo questo è un album fortemente ispirato e “centrato” sull’umore del momento storico.

Ma vediamo come è stato accolto l’album dalla stampa specializzata italiana.

Così ne parla Rockol:

“Il tempo non è gentiluomo. Di regola ci fa diventare più brutti, grossi e spelati. Anche acidi e malmostosi. Brontoloni e disillusi. Ok… che male c’è? Di sicuro si perdono lo smalto e la magia dei 20 anni, ma quelli – si sa – sono molto di frequente fuochi di paglia. Per cui ben venga, nel bene e nel male, anche la poetica/poesia del declino. In cui Moz è gran maestro, non possiamo dire altrimenti, e lo dimostra col suo nuovo album solista.

Il re del pop indie in salsa Brit, l’artista che ha cresciuto generazioni di musicisti e fan a colpi di testi che facevano male come biglietti di addio lasciati sul comodino, eppure creavano una dipendenza più forte di qualunque sostanza conosciuta, torna alla soglia dei 60 anni e non ha il minimo timore di mettersi a nudo come quando ne aveva 40 di meno. La pelle è diversa, i capelli, il girovita e il tono muscolare idem… eppure la forza e il coraggio di mostrarsi per ciò che è non gli vengono a mancare neppure per un secondo.

È innegabile, inoltre, che (come a ogni sua nuova uscita) continui a balzare alla mente il pensiero che tutto ciò sarebbe ancora più bello e struggente con Johnny Marr alle chitarre: per forza…  sono passati 30 anni dalla fine degli Smiths, ma non riusciamo a far pace col fatto che la diade ormai è composta da due monadi e il jolly Morrissey/Marr non lo vedremo più all’opera, nonostante loro due siano da sempre complementari. Ecco, eppure “Low In High School”, al netto di queste considerazioni oziose (e con il massimo rispetto per l’ottimo Boz Boorer), funziona. E molto meglio della proposta precedente di Moz.

A Morrissey, come si dice a Roma, rode pesantemente il culo per mille motivi. E i suoi testi sono lo specchio di tali rodimenti: ci infila politica, società, sesso, pulsioni antimonarchiche, relazioni sentimentali marce o troppo complicate, ribellione all’equazione produci/consuma/crepa, antimilitarismo, disprezzo per le forze dell’ordine, dandysmo strafottente, la tipica autocommiserazione tragicomica/autoironica morrisseyana e commenti tranchant sul genere umano (leggi misantropia con tanto di turbo e marmitta truccata). Il tutto su basi musicali 100% Moz, il che vuol dire che ci troviamo di fronte a melodie morbide e variegate, chitarre capaci di tagliare o di accarezzare come guanti di cachemire, escursioni nel Brit-pop, incursioni nella new wave/post punk, raid nella tradizione popolare… un impasto sonoro che crea una sorta di empatia immediata, quasi ingenua e istintiva, che peraltro cresce con gli ascolti.

Insomma, sarai anche diventato un brontolone, come dicono, ma – caro Moz – ben vengano i brontolii se si traducono in album ancora così solidi e piacevoli.”

Così se ne parla su Ondarock:

Ho preso una decisione: questa recensione dell’ultimo disco di Morrissey non proverà in alcun modo a risolvere la diatriba tra sostenitori e detrattori di “Low In High School”. Sì, perché tutta l’attenzione si concentrerebbe su un’unica questione di fondo: il disco è bello o è brutto?
A questo punto della carriera dell’ex-Smiths cosa importa se un album sia bello o brutto, la sua discografia solista è piena di dischi ottimi ma anche di cadute di stile, per non parlare di alcune opere che ancora giacciono nel limbo in attesa del perdono. Oltretutto al musicista e autore di Manchester non fotte un cazzo di cosa io o altri scriveremo di questo suo ultimo album, altrimenti avrebbe messo a frutto quei pochi consigli sparsi tra le innumerevoli recensioni che hanno accompagnato il precedente “World Peace Is None Of Your Business”.
Che Morrissey non si curi neppure dei suoi fan più fedeli, lo si evince poi dalla scelta di non assecondare le continue richieste del pubblico di ritornare musicalmente ai fasti e alla leggiadria degli esordi, al contrario dopo il divorzio con Alain Whyte la scrittura si è ancor più appesantita e imbolsita, quasi come se l’autore volesse trasferire in musica la confusione politica e sociale che è infine il cardine creativo di “Low In High School”. L’unicità di un personaggio come Morrissey è conclamata dall’impossibilità di poter separare la creazione artistica dal profilo umano dell’autore, le stesse reazioni dell’ascoltatore sono vittima dell’empatia, spesso temporanea e fugace.

Le tentazioni politiche che soggiacciono alle undici canzoni del nuovo album sono preminenti come non mai, ma non stupisca l’apparente tono reazionario di alcune esternazioni, stiamo parlando di colui che senza timore ha urlato il suo odio per la Thatcher nella canzone “Margaret On The Guillotine”: che gli valse perfino una perquisizione e un’indagine da parte della polizia britannica. Non dimentichiamoci che anche l’Fbi mise sotto torchio Morrissey per le sue dichiarazioni contro Bush (definendolo un terrorista che meritava di morire), inoltre il musicista inglese in passato aveva assunto una bizzarra posizione ideologica nella canzone “We’ll Let You Know”, dove viltà e orgoglio si alternavano nel suo ambiguo tratteggio psicologico di un violento hooligan, inoltre gli è stata perdonata anche l’incitazione a uccidere i dj nel brano degli Smiths “Panic”, un’affermazione che di li a poco gli è valsa il dispregio del popolo rave.

Il sostegno politico per la candidata anti-islam Anne Marie Waters e le esternazioni positive nei confronti di Marine Le Pen e Nigel Farage hanno creato senza alcun dubbio molta avversione tra la critica inglese, mentre il recente incidente diplomatico con la polizia italiana ha suscitato polemiche e accuse di arroganza e presunzione, che non hanno giovato alla sua immagine presso il pubblico nostrano. Forte di queste considerazioni e premesse mi accingo ad affermare senza possibilità di smentite che l’ultimo album del musicista britannico è il suo più ambizioso, controverso e confuso, un challenger da luna park che lascia storditi e stupiti a ogni giro d’ascolto. 
Quando le note di “My Love, I’d Do Anything For You” riempiono il vuoto che fa seguito ai succitati pensieri, tutte le argomentazioni ideologiche si fanno amabilmente accantonare, l’esuberanza del possente glam-hard-rock-sinfonic (azzardo un paragone con Meat Loaf) non lascia dubbi, “Low In High School” è un album  indisponente e ambiguo, ogni brano offre una doppia chiave di lettura: una piacevole e una disturbante.

Al di là delle feroci critiche inglesi (quella di The Quietus include cento volte la parola fucking), questo è l’album più ricco di potenziali singoli da classifica, a partire dalla deliziosa “Jacky’s Only Happy When She’s Up On The Stage” che si avvale di un assolo di tromba, oltreché del testo più ironico e riuscito.
L’altro singolo che ha anticipato l’album, “Spent The Day In Bed”, non solo è una delle canzoni più melodicamente affabile degli ultimi anni, ma nel contesto dell’album suona ancor più incisiva, graziata dalla stessa leggerezza di “I Wish You Lonely”, un altro brano che aveva anticipato l’altra peculiarità timbrica dell’album, ovvero quel delizioso suono di tastiere stile Roxy Music, che insieme all’uso più intenso dell’orchestra e dei fiati sono la vera novità timbrica di questo progetto. 

A questo punto diciamo la verità: quello che è forse più duro da accettare è che anche Steven Patrick Morrissey sia giunto alla soglia della maturità, e sono senza dubbio i suoi 58 anni i veri protagonisti delle acrobazie da crooner della romantica “Home Is A Question Mark” (forse il brano migliore dell’album), e senza dubbio sono la fonte dell’ambiziosa “I Bury The Living”, la quale scivola verso toni gotici da rock-opera leggermente pretenziosi.
Che “Low In High School” sia un disco bifronte lo si evince anche dalla netta separazione tra le due facciate, infatti con il delicato e notturno duetto tra piano e voce di “In Your Lap” si entra in una dimensione più crepuscolare, quasi notturna e a tratti esotica, con atmosfere che a tratti ricordano alcune cose di Marc Almond era-Marc and The Mambas, come la già citata “In Your Lap” e il tocco di flamenco di “The Girl From Tel-Aviv Who Wouldn’t Kneel”. Ed è proprio da questo tentativo di rigenerazione che nascono alcune interessanti intuizioni liriche dell’ultimo Morrissey, come l’amabile “All The Young People Must Fall In Love”, una ballata acustica alla “Give Peace A Change” che frantuma il tono serioso del disco aprendo le porte all’altra piccola delizia melodica dell’album, ovvero il tango di “When You Open Your Legs”, sottolineato con intelligenza e gusto da orchestra e fiati.
Meno riuscito il pasticcio di synth di “Who Will Protect Us From The Police?” che come nella più intensa “Israel” resta leggermente schiacciata dal peso delle parole.

Oscurato da una produzione a volte sovrabbondante, “Low In High School” resta comunque uno dei capitoli più difficili da digerire del suo catalogo, ma mentre per album come “Kill Uncle” lo stesso problema era generato da un mancanza di sinergia tra musica e testi, qui il discorso è molto diverso.
Mai come ora Morrissey sembra  a suo agio nel raccontare le sue perplessità, la band è perfettamente allineata con le esigenze del musicista e a suo modo questo è un album fortemente ispirato, e forse non va sottovalutata la sua capacità di cogliere in anticipo il tormento sociale della working class.
Piaccia o non piaccia, questa strisciante deriva reazionaria va osservata con attenzione e senza inutile sarcasmo, e forse “Low In High School” contiene più di una chiave d’accesso e di lettura del nostro turbolento presente ideologico.

Noi facciamo nostra la chiosa dell‘articolo di Repubblica: “Eccola qui, quindi, la situazione di Morrissey nel 2017. Uno zio burbero con squarci di inarginabile romanticismo. Un grande vecchio che si ostina a non vivere del suo passato. Non si sa cosa sarebbe più ridicolo: un uomo di mezza età che sbraita sconclusionato degli affari esteri dell’Inghilterra o un depresso cronico che si lamenta ancora di essere bullizzato o peggio ancora ignorato. È un cul de sac in cui Morrissey si è messo con le sue mani anno dopo anno, di fatto autorizzando quell’identificazione tra artista e personaggio delle sue opere che neanche più a Tarantino e Houellebecq viene rimproverato con tanta veemenza. E in questo vicolo cieco Stephen Patrick Morrissey, 59 anni, ci sguazza ancora che è una meraviglia irritante come l’arte, in fondo, è anche giusto che sia.”

Disco della Settimana: Kid Rock

Si, lo sappiamo, è una scelta anomala per Controradio quella di eleggere “Sweet Southern Sugar” di Kid Rock a Disco Della Settimana”, eppure Bob Ritchie ha dato alle stampe un solido album di Southern Rock davvero ben prodotto. Ok, nulla di nuovo, ma in macchina suona benissimo. Accendete i motori!

Anticipato dai singoli “Tennessee Mountain Top”, “Po-Dunk” e “Greatest Show On Earth”, Ideale seguito di “First Kiss” del 2015 “Sweet Southern Sugar” rappresenta un’ulteriore conferma di quello stile tipicamente “redneck” dell’ironico Bob Ritchie, che contamina di suggestioni ’90s e rap lo spirito del southern rock e del country.

Così se ne parla su Loudvision:

Scanzonato, sicuro di sé e provocatorio: il buon vecchio Kid Rock sembra proprio non voler perdere quel piglio che lo ha reso celebre nel panorama hard rock americano negli ultimi 20 anni. In questo senso, “Sweet Southern Sugar” (pubblicato lo scorso venerdì 3 novembre) rappresenta un’ulteriore conferma di quello stile sfrontato e “republican” tipico di Bob Ritchie, contaminato sempre di più (rispetto ai primi anni 90) dallo spirito southern rock mescolato a sonorità propriamente country. Il disco contiene 10 brani, tra cui i tre singoli apripista “Po-Dunk” (al 27° posto nella classifica “Hot Country Songs”), “Greatest Show On Earth” (16° nella “Mainstream Rock Chart”) e “Tennessee Mountain Top” (anch’essa nella “Hot Country Songs”), catturando l’attenzione sin dal primo ascolto.

“Sweet Southern Sugar” è un vero e proprio viaggio a bordo di una Cadillac decapottabile anni 50, muovendosi ad ogni curva della “highway” tra sonorità rock degne dei più moderni ZZ Top (“Po-Dunk”), ballad malinconiche simil Lynyrd Skynard (“Back To The Otherside”, “Raining Whiskey”) e persino un assaggio del caro vecchio hardcore rap (“Grandpa’s Jam”), lanciando messaggi provocatori conditi di sesso, alcol e droghe, oppure celebrativi e carichi di orgoglio americano, o ancora di amore e libertà. In questo lavoro (l’undicesimo in studio) è possibile scorgere una certa maturità da parte di Kid Rock, consacrata dal sodalizio raggiunto negli ultimi anni (o almeno dall’album “Rock n Roll Jesus” del 2007) con la country music. Alzate pure lo stereo!

A Rockol è piaciuto meno:

Voleva fare il senatore degli Stati Uniti, invece ha pubblicato un nuovo album. Francamente – vista l’aria che tira, trumpismo compreso – è meglio così. Molto meglio un disco di rock/country/rap/hard rock in più, che un musicista con le idee un tantino confuse seduto in Senato. È così che ci troviamo in mano questo “Sweet Southern Sugar”, undicesima fatica in studio del Nostro – che non si smentisce neppure musicalmente.

Non è il caso di aspettarsi sorprese di alcun tipo, né raffinatezze o sperimentazioni (ammesso che ci sia ancora chi se le aspetta). “Sweet Southern Sugar” è un agglomerato di 10 pezzi in salsa southern rock/country con tocchi rap, conditi da testi e attitudine che evocano patriottismo da teatrino, aggressività da mandriano armato stile “stai lontano da me e dalle mie cose” e una parossistica celebrazione degli ideali più reazionari dell’immaginario redneck.

Descritto così sembra anche piuttosto repellente come quadretto, eppure occorre rendere il merito a Kid Rock (vero nome Robert James Ritchie) di saperci fare, anche con ingredienti del genere: c’è lo stereotipo – e a quintali – ma quella vena di ironia e umorismo di grana grossa che da sempre lo contraddistingue strappa il sorriso in qualche occasione, risollevando le sorti di un disco altrimenti poco più che mediocre.

Mediocre perché intrecciato a doppio filo con una tradizione musicale che ha detto tutto da decenni ormai, relegata – se vogliamo – al mondo della nostalgia e del revival, cristallizzata; non che non ci siano altri generi che soffrono di questa sindrome, ma se al tutto aggiungiamo anche stivali da cowboy, uno spiccato sentimento repubblicano (all’americana, of course), la retorica da far west contemporaneo e i riff che saccheggiano il repertorio di Lynyrd Skynyrd, Molly Hatchet & co. senza troppi complimenti (per non parlare di qualche momento street/glam alla Mötley Crüe, di una manciata di rocconi alla Brian Adams d’antan e di qualche riffaccio che gli Who potrebbero reclamare)… ecco, allora l’aria si fa un po’ più rarefatta. Anche con qualche rappata nostalgica in più a movimentare la faccenda.

Morale: un disco che si fa ascoltare a cervello spento, che regala qualche momento di rock sanguigno e standard, da radio FM americana, ma che oggettivamente non fa drizzare neppure un pelo sulla pelle. Qualcuno lo chiamerebbe “ruock” e nemmeno troppo a torto.

Del resto ogni tanto c’è anche bisogno di ascoltare senza farsi troppe seghe mentali. E un album così questo promette e questo offre. Nel bene e nel male.

 

Ma per farci due risate sul pittoresco personaggio (già candidato con un programma decisamente “populista” al senato USA) vi consigliamo la recensione “distopica” di Noisey  intitolato “Abbiamo immaginato Kid Rock presidente degli USA“:

Kid Rock è uno di quei personaggi pubblici per cui l’opinione pubblica oscilla costantemente tra il disprezzo e il LOL, ma una cosa che siamo sicuri che nessuno proverà nei suoi confronti è stima o fiducia. Uno pensa che non ci sia nulla di peggio del fatto che Kid Rock si sia candidato al Senato degli USA, e invece c’è eccome: la candidatura era un espediente di marketing per promuovere il suo nuovo album, Sweet Southern Sugar

“GREATEST SHOW ON EARTH”
La cerimonia di inaugurazione: finalmente l’America ha il Presidente che merita. Le bandiere Sudiste sventolano.

“PO-DUNK”
Improvvisamente la pagina Wikipedia della musica blues recita che si tratta di un genere musicale inventato da John Wayne.

“TENNESSEE MOUNTAIN TOP”
Si tiene il primo Barbecue Presidenziale in un parco naturale sugli Appalachi. L’intero stato del Tennessee viene circondato da un cordone di milizie private, la cui divisa consiste in canottiera + pelliccia. Durerà tre mesi.

“I WONDER”
Un decreto presidenziale stabilisce che quella che finora è stata chiamata “razza caucasica” cambierà nome in “razza nera” e viceversa.

“AMERICAN ROCK’N’ROLL”
Un decreto presidenziale stabilisce che gli Stati Uniti d’America ora comprendono ogni luogo in cui sia sorto un McDonald’s. L’ONU protesta timidamente. Vladimir Putin fa le flessioni in un angolo ridendo.

“BACK TO THE OTHERSIDE”
Viene votata una mozione che ridefinisce il matrimonio come “il legame indissolubile tra un uomo e il suo pick-up”.

“RAINING WHISKEY”
Si tiene il secondo Barbecue Presidenziale, questa volta sul bayou in Louisiana. In tutto lo Stato non viene suonata una nota di musica per l’intera durata della cerimonia, dal 4 luglio al 15 agosto.

“STAND THE PAIN”
Un attentato terroristico sconvolge gli USA. Invece di tenere un discorso alla nazione, il presidente Rock e la sua band suonano questa canzone a canali unificati: “Quando ti sembra di non riuscire più a sopportare il dolore / Quando ti sembra non ci sia rimasto più nulla da fare / Abbassa la testa e non ti fermare”. Diventa il singolo più venduto di tutti i tempi.

“SUGAR PIE HONEY BUNCH”
Si viene a sapere che i membri dei partiti di opposizione sono stati deportati su un’isola tropicale. In quello che non si capisce se sia un gesto di magnanimità o di perverso sadismo, l’unica attività che gli esiliati possono svolgere sull’isola è il golf.

“GRANPA’S JAM”
Il mandato presidenziale di Kid Rock si conclude e lui, forte della consapevolezza di aver cambiato radicalmente il mondo, si ritira a vita privata, ma non prima di aver diffuso in ogni edificio pubblico questa canzone in repeat per il suo ultimo mese di reggenza.

Disco della settimana: Martha High

La storica “Funky Diva” di James Brown, Martha High presenta il nuovo LP “Tribute To My Soul Sisters” prodotto dagli Osaka Monaurail per la nostrana Record Kicks. Martha High & Osaka Monaurail saranno in concerto in data unica in Italia, Sabato 25 Novembre al Biko di Milano.

La “hardest working lady in show business” Martha High è stata parte integrante della vita e della carriera di James Brown per oltre 30 anni: era la sua corista, curava il suo stile ed è sempre stata la sua più stretta confidente. Dopo aver speso una vita a contatto col Godfather Of Soul, Martha ha fatto squadra con la band giapponese Osaka Monaurail per registrare un tributo speciale alle sue compagne di avventura della James Brown Revue.

L’album uscirà in tutto il mondo solo il prossimo 17 Novembre su Record Kicks, noi di Controradio ve ne proponiamo l’ascolto in assoluta anteprima.


L’idea di registrare un disco in onore delle sue compagne “female vocalist” della mitica “James Brown Revue” risale al 2014, ed è nata durante una visita di Martha a Richmond in Virginia al suo amico produttore Dj Pari, manager tra gli altri degli Impressions, Marva Whitney e Lyn Collins, trascorsa parlando del passato, dei dischi e dei tour con la JB Revue.

Ho pensato a queste regine del Soul”, ha dichiarato Martha, “avere l’opportunità e il piacere di interpretare i loro brani è il mio modo di dir loro: grazie, non vi dimentico. Mantenere in vita la musica delle Funky Divas è sempre stato molto importante anche per Mr. Brown. Lui voleva che il mondo sapesse che aveva diverse donne potentissime sul palco, che erano in grado di tenere il pubblico mentre lui si cambiava e prendeva un break; loro erano potenti e funky esattamente quanto lo era lui.”

Seguendo il consiglio di DJ Pari, Miss High non ha perso tempo ed è volata fino a Tokio, dove ad attenderla c’erano gli Osaka Monaurail. Influenzati dalla musica di James Brown, Bobby Byrd, Curtis Mayfield e con 9 album in studio all’attivo, gli Osaka Monaurail sono un punto di riferimento per la scena funk & soul internazionale. Da 25 anni tengono alta la bandiera del funk suonando ripetutamente nei più importanti festival in tutto il mondo, tra cui il Montreal Jazz Festival, North Sea Jazz Festival e il Womad, e vantano collaborazioni per con personaggi del calibro di Maceo Parker, Marva Whitney e Fred Wesley.

Il risultato di questo matrimonio sono 13 perle incandescenti, interpretate come solo una vera Soul Sister può fare. Tra i titoli si trovano “Think (About It)”, resa famosa dalla female preacher Lyn Collins, “Mama’s Got A Bag Of Her Own”, la risposta di Anna King a “Papa’s Got A Brand New Bag” di James Brown e “Answer to Mother Popcorn” della leggendaria Vicki Anderson.

Nata a Victoria, Virginia, e scoperta dalla leggenda del Rock & Roll Bo Diddley, Martha ha iniziato la sua carriera nel leggendario gruppo doo wop “The Four Jewels”, col quale registrò la hit “Opportunity” nel 1964. Notata subito da James Brown, nel 1966 la band entra a far parte della “JB Revue”, registrando numerose hit con il Godfather of Soul e accompagnandolo sempre in tour. Dopo lo scioglimento delle Jewels, Martha High rimase a fianco di JB, col quale ha continuato a lavorare per 32 anni consecutivi. Era con lui al celebre concerto di Boston Garden nel 1968, la notte dopo l’assassinio di Martin Luther King, era al suo fianco durante il “The Legends of Rock & Roll” e in Zaire per il celebre “Rumble in The Jungle”. Durante questi anni, Mr. Brown ha prodotto diversi singoli di Martha High per la sua etichetta “People” tra cui “Georgy Girl”, “Try Me” e “Summertime”, mentre Miss High ha dato il via alla propria carriera solista nel 1979 con l’LP omonimo uscito per la mitica “Salsoul Records”. Da allora Martha ha pubblicato altri cinque album, è diventata una delle lead singer del leggendario saxofonista Maceo Parker, col quale ha girato il mondo per 16 anni, ed ha collaborato con numerose icone come Little Richard, Jerry lee Lewis, The Temptations, Aretha Franklin, B.B. King, Stevie Wonder, Prince, Michael Jackson e George Clinton, guadagnandosi sul campo lo pseudonimo di “hardest working lady in show business”.

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