Indian Nation 2023, un viaggio nella terra dei Navajo: “Epilogo”

Tutto quello che hai visto, ricordalo, perché tutto quel che dimentichi ritorna a volare nel vento (canto Navajo).

Ritorno alla vita quotidiana, piena di nostalgia del bellissimo viaggio appena concluso. Di fronte agli immensi spazi americani, tutto mi sembra piccolo. Mi mancano i cirri bianchi nei cieli a perdita d’occhio sui deserti dell’Arizona, le scure conifere giganti delle Montagne Rocciose, il serpeggiare del Colorado in fondo a canyons profondissimi, con gli insediamenti pueblos nascosti nelle anse delle pareti inaccessibili.  Ma mi sono rimaste nel cuore soprattutto le persone. Le popolazioni native, così resilienti, fiere e gentili, dopo aver subito l’espropriazione delle loro terre, dei loro averi e della loro cultura. Siamo entrati nelle loro terre, una volta definite “riserve”, oggi parchi naturali di incomparabile bellezza, che gestiscono e di cui proteggono l’integrità. Quella natura immensa e grandiosa è sempre stata la loro casa, in una simbiosi equilibrata fra uomo e territorio. Ho provato amarezza nel museo di Window Rock, la capitale della Navajo Country, all’ombra della iconica montagna forata, nel vedere quanto spazio viene dedicato dalla comunità Navajo alla narrazione della Long Walk, la marcia della morte, nella quale il Popolo della Terra è stato costretto a trascinarsi per più di 700 chilometri da quel Kit Carson, il cinico colonnello principale responsabile della devastazione dello splendido Canyon de Chelly e della capitolazione del Popolo della terra per fame e sete.

Un ricordo che ancora oggi è vivo fra la popolazione ed è rappresentato nel museo in modo interattivo, con centinaia di bigliettini che gli eredi di quelle famiglie, nipoti o bisnipoti, attaccano alle pareti col il nome dei propri nonni o bisnonni che erano stati protagonisti di quella immane tragedia. E mi ha colpito l’intera sala dedicata al Trattato del 1868, esposto in originale, foglio dopo foglio e letto parola per parola, a ciclo continuo, da una voce narrante in lingua navajo, perché quel momento non venga mai dimenticato. Perché con quel Trattato finì la persecuzione nei loro confronti ed i Navajos poterono finalmente ritornare nelle loro terre. E le sale riservate alle foto dei veterani navajo della Seconda guerra mondiale ed alle attrezzature walkie-talkie con le quali i nativi-soldati trasmettevano le comunicazioni belliche, nel loro linguaggio criptico, incomprensibile per il nemico. Si sente l’orgoglio identitario, di appartenenza ad una stirpe antica e nello stesso tempo l’orgoglio per aver dato un importante contributo al Grande Paese, dal quale pure avevano ricevuto tanto male in passato.

E che suggestione ispirano le riproduzioni artistiche dei miti fondativi, la Prima Donna ed il Primo Uomo, che erano convinti di poter vivere separati sulle rive opposte di un grande fiume, fino a che si resero conto di soffrire e di non poter vivere gli uni senza le altre, di dover trovare insieme un equilibrio. Non dimentichiamoci che le donne navajo erano le padrone delle pecore e gli uomini dei cavalli. E la società era matrilineare e dopo il matrimonio erano i giovani Navajo a trasferirsi a casa delle suocere…  Il mio mito preferito rimane la Donna Ragno, che abita in cima alla Spider Rock ed insegna ai popoli l’arte della tessitura, la quale rappresenta la Madre Natura, protettrice degli umani, “vecchia come il tempo, giovane come l’eternità”, benevola ma anche severa con i bambini cattivi, che cattura con la sua rete e divora, in cima alle sue torri di roccia. E che secondo l’antropologa femminista Clarissa Pinkola Estès rappresenta l’archetipo della Donna Selvaggia, colei che, fra le figure di donne “che corrono con i lupi” delle varie culture tribali di tutto il mondo, tesse il fato degli esseri umani e degli animali, delle piante e delle pietre. Che tiene insieme natura ed umanità, la parte razionale e l’”io selvaggio” che alberga nascosto dentro di noi. E la sua rete è rappresentata in modo simbolico dagli “acchiappasogni”, come quello che si è “fatto trovare” da me in terra, perduto da chissà chi, nella plaza di Albuquerque, come un segno del destino.

E mi sono rimasti nel cuore le giovani Navajos, sorridenti e gentili, che lavorano nella gestione dei parchi, nell’accoglienza, negli spacci dove si vendono i preziosi oggetti di artigianato, gioielli di argento e di turchese e tappeti morbidissimi. E la giovane e bellissima ranger, che generosamente ci ha aiutato a risolvere un bel guaio in cui uno dei nostri compagni di viaggio era incorso… Abbiamo avuto meno occasione di conoscere meglio i Nativi di altre etnie, come le enigmatiche popolazioni Pueblo, per una serie di sfortunati contrattempi, che non ci hanno consentito di visitare da vicino il pueblo di Mesa Verde, per un problema di prenotazione né quello ancora abitato a Taos, a causa di una festa rituale. Questa antica popolazione in passato affidava la propria sopravvivenza mimetizzando le loro città color dell’argilla nelle pieghe delle pareti dei canyon, rendendole fisicamente inaccessibili ai nemici, ma non ai loro fucili, come testimonia l’insediamento nel Canyon cosiddetto del Massacro. E sono rimasti inaccessibili anche a noi.

Abbiamo vissuto con emozione la vertigine della City in The Sky, ma non abbiamo potuto percorrere il sentiero che ci avrebbe permesso di discendere a piedi dal picco su cui l’insediamento è collocato, fatto di costruzioni Pueblos in adobe (mattoni di fango e paglia cotti al sole) senza elettricità o acqua corrente ma solo piovana, che sono ancora abitate, come “seconde case” dai nativi, che hanno riadattato alle esigenze moderne con generatori, bombole, bagni chimici ed infissi di recupero ( come spesso facciamo anche noi con le case dei nonni nei borghi antichi). Ci dovremo tornare, per completare queste bellissime esperienze!

Finisco questo post nostalgico con un ricordo ed un saluto affettuoso al gruppo di viaggiatori e viaggiatrici con cui abbiamo condiviso risate, incanti, vertigini, riflessioni e contrattempi. Persone rare, colte e divertenti. Con una parte di loro avevamo già viaggiato (in Canada, in Islanda). Con altri ci siamo incontrati per la prima volta in Indian Nation, ma è come se ci fossimo sempre conosciuti. Ed un ringraziamento speciale al nostro Tour Leader Maximo, Super-Gimmy Tranquillo, innamorato dell’America, che ci ha condotti a spasso per più di 3500 chilometri con la sua vulcanica energia, che non è venuta mai meno, anche quando “una serie di sfortunati eventi” (per definire così le varie sfighe che ci hanno perseguitato) hanno complicato il viaggio, nel quale regnava sovrana la Murphy’s Law (se una cosa può andare storta, state certi che lo farà). E che è riuscito a trovare sempre soluzioni ingegnose e creative per rendere il nostro viaggio davvero indimenticabile. Alla prossima!!

Marina Capponi

𝗜𝗻𝗱𝗶𝗮𝗻 𝗡𝗮𝘁𝗶𝗼𝗻 𝟮𝟬𝟮𝟯, ‘𝗜 𝘃𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗖𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼𝗿𝗮𝗱𝗶𝗼 𝗖𝗹𝘂𝗯’. Note di Viaggio

Firenze, il 31 di agosto si è concluso 𝗜𝗻𝗱𝗶𝗮𝗻 𝗡𝗮𝘁𝗶𝗼𝗻 2023, un viaggio organizzato dal Controradio Club, attraverso cinque stati del south-west degli Stati Uniti.

Il viaggio 𝗜𝗻𝗱𝗶𝗮𝗻 𝗡𝗮𝘁𝗶𝗼𝗻, ha attraversato Nevada, Colorado, New Mexico, Utah ed Arizona, visitando parchi nazionali di incredibile bellezza come Canyonland, Arches, Mesa Verde e città come Durango e Santa Fe, viaggio nelle terre dei Navajos nelle quali si intrecciano storie e leggende dell’epopea del west, dalle tragedie inflitte ai nativi americani ai miti dei western hoolywoodiani. Un viaggio guidato da Gimmy Tranquillo di Controradio.

Durante Indian Nation 2023 alcuni viaggiatori hanno voluto lasciare una lro testimonianza scrivendo delle note che sono state raccolte in questo articolo, note utilissime a chi vorrà andare a visitare queste terre magari con un prossimo viaggio del Controradio club.

Note di Viaggio di Marina Capponi

Indian Nation 2023Ieri prima tappa di avvicinamento alle Indians nations, le terre dei nativi americani, con CONTRORADIO ADVENTURES . Las Vegas, Nevada, sin city, la città del peccato, che non dorme mai. Di giorno incute francamente un po’ di tristezza, con la grandiosità trash e trasandata dei suoi enormi alberghi-casino a tema. La notte le luci la trasformano nel grande luna park per adulti delle immagini cinematografiche che tutti conosciamo. Stanza molto vintage, odore di fumo freddo e vecchia moquette, letto assai confortevole, veduta su una gigantesca sfinge con obelisco: dormiamo al Luxor, un’enorme piramide dorata arredata da geroglifici e divinità, circondate dagli dèi locali, le immancabili slot machines. Dopo 13 ore di volo e 9 fusi orari non siamo nello stato d’animo per apprezzare pienamente neanche il Bellagio, davvero il più sontuoso, con lago, giardini finti all’italiana, chilometriche limousine. E tantomeno la cena, una zuppa al pomodoro per la bellezza di 21 dollari! Dubito che sarà un viaggio rimarchevole sotto il profilo gastronomico…ed ora si parte per lo Utah, lago Powell e poi Arizona. A domani!

Indian Nation 2023Secondo giorno del viaggio verso le terre dei nativi americani con CONTRORADIO ADVENTURES e Gimmy Tranquillo. Ci lasciamo alle spalle il Nevada e Las Vegas, dove vige la regola esistenziale che ciò che ivi succede, lì rimane ed ogni sregolatezza è perdonata. Il che è una interessante filosofia. Sulla Highway incontriamo giganteschi cartelloni pubblicitari dove avvocati fighissimi offrono le loro prestazioni con claim strepitosi come “born to win”. Sto pensando di inserire qualcosa del genere nella mia carta da lettere… oggi è un giorno di trasferimento, verso il parco nazionale Arches, ma cammin facendo attraversiamo più volte Utah ed Arizona ed i loro diversi fusi orari. I panorami sono mozzafiato, la storia della terra stratificata e raccontata attraverso formazioni rocciose a colori sovrapposti.

Indian Nation 2023
Terzo giorno di viaggio in Indian Nation, con CONTRORADIO ADVENTURES e la guida di Gimmy Tranquillo. Avvicinandoci al Parco nazionale di Arches ci inoltriamo nel territorio dell’Utah, nell’America profonda, terra di mormoni, come denota il simbolo stradale dell’alveare, che richiama la vita operosa e solidale di questa numerosa comunità. Ma soprattutto siamo in terra Navajo, il popolo cui questi territori appartenevano per diritto di nascita. Il gruppo etnico del Popolo della terra, come i Navajos amano essere chiamati, è ancora abbastanza numeroso, circa 300.000 individui, suddivisi in vari clan che vivono in gruppi familiari, spesso molto isolati gli uni dagli altri. Le abitazioni navajo si riconoscono dalla presenza all’esterno di hogan, edifici rituali che un tempo, edificati con legno e fango, con un foro nel tetto per il fumo del focolare, rappresentavano il luogo principale dove si svolgeva la vita domestica e religiosa. Oggi sono, in versione moderna, in legno ed a forma ottagonale. E fuori dalla casa navajo si accumulano tristemente rottami di auto abbandonate, residui di elargizioni statali. La tragica epopea dei nativi americani è a tutti nota. La cattiva coscienza e il senso di colpa per le nefandezze compiute dall’uomo bianco a danno di coloro che erano i legittimi proprietari di queste terre ha indotto l’adozione nei loro confronti di politiche assistenzialiste prima e di concessioni di sfruttamento di risorse naturali in tempi più recenti, che hanno reso la comunità navajo più indipendente, come la centrale elettrica a carbone o la gestione del turismo del parco della Monument Valley. Ma ciò non ha cancellato le ineliminabili conseguenze sociali dello sradicamento da culture e abitudini di valore identitario inestimabile. Oggi il Popolo della Terra ha ancora la sua lingua, che viene insegnata a scuola, ha artigiani e artisti che producono oggetti stupendi e costosi e non paccottiglia per turisti. I giovani studiano e lavorano, ben integrati e comunque orgogliosi delle loro origini. Ma il problema sociale dell’alcoolismo e dell’obesità sono difficili da estirpare. E la vergogna di ciò che è stato, nessuno la potrà mai cancellare.
Con l’amarezza nel cuore raggiungiamo le sensazionali bellezze naturali del parco Arches, che percorriamo con un tracciato da trekking abbastanza sostenuto fino al Delicate Arch, che ci ripaga con il suo grandioso splendore della pioggia battente e del vento sabbioso che ci hanno strapazzato e frustato durante la salita. Un arco così bello, fra i circa 2000 ancora esistenti, da essere assunto come l’immagine simbolo delle targhe automobilistiche dello Stato dell’Utah.
Quarto giorno davvero on the road in Indian Nation, con CONTRORADIO ADVENTURES e la guida di Gimmy Tranquillo. Il nostro autista Louis ci conduce sereni, macinando miglia e miglia con serafica ed orientale sicurezza.
Destinazione: i parchi nazionali tra i più belli: Canyonland, con Island in the Sky, davvero un luogo magico per l’altitudine del suo plateau e la vertigine di affacciarsi, da più di 2000 metri, sugli incredibili meandri ritorti del verde Colorado ed i suoi canyons labirintici. Sole caldissimo da alta montagna, vegetazione particolare adattata ai venti ed alle temperature estreme del luogo: una specie di pino basso e contorto con il doppio ago, il Utah juniperus, una qualità di ginepro con le coccole dure e azzurre, con le quali i nativi realizzano monili per scacciare gli spiriti maligni, dei mini-cactus e delle mini-yucche, creature del deserto nanizzate e adattate ad un clima di alta montagna. E poi ecco la star del luogo: il Mesa Arch, che la mattina presto è rosso fiammeggiante e si affaccia su una balconata sensazionale di canyons e candelabri di roccia. E poi il Dead horse Point, con le sue suggestioni cinematografiche di Thelma e Louise. Ed andiamo via di corsa, ancora on the road, entrando nel Colorado, ed arrampicandosi sulle mitiche Montagne Rocciose, con un cambio di paesaggio davvero straniante, fra boschi di conifere altissime, betulle argentate e stazioni sciistiche. Ed una pioggia battente che non ci abbandona mai, mentre valichiamo il Code Bank Pass, ad oltre 3000 metri di quota. E poi giù nella valle raggiungiamo la nostra destinazione: Silverstone, la antica cittadina delle miniere d’argento dove, stanchi ed infreddoliti ma rapiti dalla magia Old West dell’atmosfera, mangiamo Filet Mignon e salmone in un vero saloon!!
Quinto giorno di viaggio in Indian Nation, con CONTRORADIO ADVENTURES, nella deliziosa cittadina di Silverton, Colorado. Il piccolo centro minerario, dopo la chiusura dell’ultimo impianto estrattivo (di argento, oro, rame ed altri minerali) negli anni 90 ed un periodo di abbandono, si è riconvertito in un centro turistico molto apprezzato per chi cerca il fascino della frontiera, in aree dedicate alle attività sportive nella natura. Il paese ricostruisce, con un mix molto ben riuscito di autenticità e di finzione, l’atmosfera del vecchio West. Molto bello il museo locale, che racchiude la memoria storica della dura vita dei minatori e conserva ancora la minuscola prigione.
Il Gran Imperial Hotel è particolarmente fascinoso, così come l’attiguo ristorante, con un autentico saloon ed il pianista che allieta il pranzo a ritmo di ragtime.
Il pezzo forte della giornata è rappresentato dallo spostamento da Silverton a Durango con la vecchia locomotiva a vapore, che era a servizio della miniera e non ha mai smesso di funzionare, diventando così la principale attrazione turistica locale.
Indian Nation 2023Sesto giorno nelle terre dei nativi, le Indian Nation con @CONTRORADIO ADVENTURES.
Nel magnifico ed immenso parco nazionale di Mesa Verde, incontriamo le affascinanti vestigia della civiltà dei Pueblo Ancestrali, che annidano i loro insediamenti di adobe nelle cavità dei canyons al di sotto della Mesa. Coltivatori ed allevatori, a differenza dei cacciatori raccoglitori Navajos, ci hanno lasciato le vestigia di una civiltà che intorno all’anno 1000, non utilizzava metalli bensì utensili di osso, ossidiana, pietra. Vasellame bellissimo con la tecnica del cordonato, senza l’uso del tornio. Le donne erano depositare della tecnica della tessitura e la società era matrilineare. Molto interessanti le interazioni fra i Navajos, il Popolo della Terra ed i Pueblo attraverso i matrimoni, che l’antropologa Ruth Underhill ci racconta in maniera intrigante. E poi dopo 6 ore di pullman andiamo verso Taos, nel New Mexico, la città di Kit Carson.
Indian Nation 2023Settima intensa giornata di viaggio in Indian Nation, con CONTRORADIO ADVENTURES .
A Taos, elegante cittadina del New Mexico, la figura di Kit Carson è un eroe nazionale, gli hanno dedicato una strada e la sua ultima abitazione è stata trasformata in museo. È in realtà un figura molto controversa, che va sfrondata dall’aura leggendaria e romantica dei fumetti di Bonelli. Dal punto di vista dei nativi e della moderna storiografia, rappresenta colui che abilmente riuscì a costringere i Navajos ad un accordo molto penalizzante per loro, riducendoli letteralmente alla fame ed alla sete, abbattendo le loro coltivazioni di pesche, sterminandone le greggi ed intercettando le sorgenti. Aveva sposato una giovane Arapaho, poi una Cheyenne, infine Josefa, una giovane di buona famiglia di Taos, che gli diede molti figli, fino a morire di parto.
Lasciamo Taos ed i suoi quartieri Pueblo ancora abitati, intatti, nelle stesse condizioni del passato, senza elettricità e acqua corrente, ma che non possiamo visitare perché impegnati in celebrazioni rituali interdette ai turisti e raggiungiamo Santa Fe, la capitale culturale ed artistica del New Mexico, vero paradiso per gli artisti emergenti, che reinterpretano il crocevia di culture, quella dei nativi, quella messicana e nordamericana con esiti davvero interessanti.
Indian Nation 2023Ottavo giorno del viaggio in Indian Nation con CONTRORADIO ADVENTURES. Prima di lasciare il New Mexico per tornare in Arizona, ci fermiamo ad Albuquerque, ammirando nella Old Town Plaza la settecentesca chiesa di S. Filippo Neri e le sue due torri in stile coloniale. Ma il momento più emozionante è la visita del sito abitato dagli Acoma Pueblo, la Sky City, un insediamento arroccato su una ripidissima e spettacolare Mesa in mezzo al deserto, una cittadella quasi inaccessibile che galleggia nel cielo terso. Gli Acoma Pueblo sono una popolazione molto resiliente, che tutt’ora abita i Pueblo costruiti in adobe e ne ha una cura ammirevole, nonostante le difficoltà, prima fra tutte la mancanza d’acqua, che viene ancora raccolta dopo le rare piogge in cavità della roccia, purtroppo inquinate da un’alga dispettosa. Si tratta di uno degli insediamenti più antichi del Nord America, la cui storia, tramandata oralmente, nella quale si mescolano inestricabilmente cronaca e leggenda, ha avuto momenti tragici alla fine del 1500, quando i Conquistadores spagnoli, nella spasmodica ricerca dell’Eldorado, hanno commesso ignobili efferatezze nei confronti dei pacifici Pueblos, uccidendo, mutilando e deportando la popolazione, uomini donne e bambini. Ed i missionari non sono stati da meno in quanto a sadismo, costringendo gli acomani a trasportare enormi tronchi per le travi del tetto della chiesa dedicata a S Esteban del Rey, dalle lontane montagne, senza che il legname potesse mai toccare terra. Gli Acoma Pueblo oggi gestiscono il sito ed il museo, preservando con cura ed orgoglio la loro storia e la loro antica cultura. E amministrano anche il redditizio Casinò di Sky City, in deroga alle restrittive disposizioni statali che vietano le case da gioco.
Indian Nation 2023Nona giornata nelle Indian Nation con CONTRORADIO ADVENTURES. Siamo nuovamente avvolti dai colori contrastanti dell’Arizona, nel cuore del territorio Navajo, con la capitale, Window Rock, che prende il nome da una spettacolare apertura circolare nella montagna, un tempo teatro di cerimonie per la presenza di una sorgente, ora inaridita, che ospita le istituzioni di governo della comunità. Un intrico di Canyon, fra i più belli visti finora. Il labirintico Canyon de Chelly (che in lingua navajo si pronuncia shein), il Canyon del Muerto, le torri gemelle di Spider Rock, dove secondo la leggenda vive la Spider Woman, la donna-ragno, uno dei miti fondativo della cultura dei Dinè, che insegnò loro la tessitura. Una figura mitologica benevola, ma anche severa e crudele, perché rapisce i bimbi cattivi portandoli in cima al suo rifugio inaccessibile, dove per i Navajo tutt’ora biancheggiano i loro ossicini…
Indian Nation 2023
Decima giornata nella Indian Country, con CONTRORADIO ADVENTURES. Siamo sempre nella Navajo Reservation, in Arizona, e ci concediamo una sosta piacevole presso l’antico emporio Hubbell Trading Post, un sito storico creato dal commerciante illuminato john Lorenzo Hubbel nel 1872, che i nativi chiamavano Naakai Sani. Il giovane Lorenzo aveva imparato l’idioma navajo ed aveva saputo intrattenere rapporti amichevoli e reciprocamente rispettosi con i nativi, reduci dalle tragedie della Lunga Marcia. Oggi l’emporio è gestito dalla comunità (i prodotti sono buonissimi e molto particolari) e arricchito da un interessante museo. Si prosegue verso un altro sito di enorme interesse naturalistico: la foresta pietrificata, il più grande deposito di alberi fossili al mondo. Lo skyline è sensazionale, un paesaggio lunare, dove si alternano le badlands multicolori, con basalto nero (residuo di un antico vulcano) arenaria rossa, argilla azzurra e limo bianco, sulle quali è adagiata una foresta preistorica di enormi conifere, il cui legno si è trasformato in quarzo traslucido, che conserva ancora le forme ed i colori del Triassico. Proseguiamo verso il Meteor Crater, provocato 50.000 anni fa dall’impatto di un meteorite ferroso sul suolo dell’odierna Arizona del nord, creando un cratere perfetto, largo 1600 metri e profondo 150, molto interessante per lo studio di questi devastanti fenomeni, il cui rischio incombe sempre sul nostro fragile pianeta. La giornata termina a Flagstaff, una amena cittadina sulla mitica Route 66. Ah, dimenticavo una sosta a Winslow, resa famosa da una canzone degli Eagles (Take it easy) e da uno “Standin’ on the Corner Park” dove farsi fotografare accanto alla statua del musicista autistoppista. Ah, questi americani…
Indian Nation 2023Undicesima giornata del bellissimo viaggio in Indian Nation con CONTRORADIO ADVENTURES. Percorriamo la storica Route 66, la più letteraria e cinematografica delle strade americane, aperta nel 1926, che originariamente collegava Chicago a Los Angeles snodandosi per oltre 3.700 km. Oggi la originaria, fascinosa strada sopravvive solo nelle pagine di Furore di Steinbeck e, meno nobilmente, nei cartoni animati di Cars, poiché buona parte del percorso è stato sostituito ed in alcuni tratti sovrapposto dalla molto meno pittoresca Interstate 40. Alcuni paesi nati lungo il suo tracciato sono rimasti tagliati fuori dal principale traffico commerciale, diventando luoghi della memoria e sopravvivendo solo grazie al turismo nostalgico a caccia di suggestioni di un passato tutto sommato recente per le nostre abitudini. Come noi del resto, che ci fermiamo a Seligman e saccheggiamo a mani basse il Barber shop del mitico ed intraprendente Angel Delgadillo, oggi ultranovantenne, che per anni con la moglie Wilma ha gestito l’elegante salone di barbiere, uno dei primi insediamento commerciali lungo la Historical Route, oggi mandato avanti con affettuosa cura dalle simpatiche figlie. Sarà, ma il mito di questa America di negozietti pieni di souvenir tutti eguali e di bar malinconici e semideserti alla Hopper non mi prende, mi sembra triste e fasulla, come il cartonato di Angel ed il pupazzo di Elvis, in compagnia dei quali ci sembra doveroso farci fotografare.
Indian Nation 2023Dodicesimo ed ultimo giorno di permanenza in Usa nel viaggio Indian Nation con CONTRORADIO ADVENTURES. La vacanza volge al termine, dove tutto è cominciato, Las Vegas, che da luogo verde e ameno (il nome in spagnolo, pensate un po,’ significa i prati) è diventato sinonimo di “divertimentificio”, un gigantesco luna park per adulti rimasti eterni bambinoni, con tanti denari da spendere. Tutto è gigantesco e caricaturale, dai gondolieri che navigano a motore su un finto Grand Canal cantando le arie del Padrino del Venetian, al mini-lago di Como del Bellagio con le sue fontane danzanti, alla minitour Eiffel del Paris. Ed ovunque tavoli da gioco e slot machines, in un frastuono assordante e luci ipnotiche, come quelle della nuova attrazione, la Sphere, ed i suoi milioni di led danzanti, pilotati da un sofisticato sistema computerizzato. Il tour notturno ci rende un’immagine più brillante di Sin City rispetto all’arrivo, di giorno, quando la città del peccato ci e’ apparsa sonnolenta e sdrucita, come una giostra abbandonata. Ma sempre triste ed assurda, in un vortice di ambienti al chiuso, curatissimi in ogni particolare, ma irrimediabilmente fasulli, come il finto cielo azzurro del Venetian, sempre illuminato da un sole artificiale, come in The Truman Show. Più simpatica ed allegramente ruspante è la Las Vegas di Down Town, che visitiamo la mattina, una specie di Galleria milanese in versione americana, con cosplayer, diavolette sexy e negozietti di souvenir. E tanti homeless, che ci fanno pensare alle lancinanti contraddizioni di una società dove si spreca una quantità smodata di energia per luci, aria condizionata a palla e di cibo, in tutti i “mangifici” dove a colazione puoi consumare ciò che vuoi, dalle cozze al cappuccino, mentre un’umanità marginale sopravvive invisibile, con tutti i propri averi indosso, in un caldo opprimente che supera i 40 gradi. Un’ultima visita di “civilization” prima di lasciare il Grande Paese ed imbarcarci sul volo Edelweiss per Zurigo : la Hoover Dam, diga sul Colorado che crea il lago Mead, il primo bacino artificiale degli Usa, costituito negli anni 30, per produrre energia elettrica e rifornire di acqua Arizona e Nevada. Dopo un filmino antiquato e celebrativo, visitiamo le gallerie e le gigantesche turbine, sormontate da un bandierone star & stripes in eguale proporzione. Anche qui, come nel lago Powell, si avverte evidente l’impatto impressionante di queste opere sull’ambiente e le conseguenze del cambiamento climatico: il lago si è abbassato di almeno una ventina di metri, lasciando lontani dalla riva alberghi e ville, nonostante il sacrificio in termini di portata idrica cui viene sottoposto il povero Colorado, il quale non ha più un estuario, perché prima di gettarsi nel golfo della California come in origine si perde nelle sabbie e finisce nel nulla. Con buona pace delle specie vegetali e animali particolarissime che vivevano in quell’ ambiente acquatico, come il minuscolo Elf Owl, il gufo elfo ed altri delicati animaletti, ovviamente oggi molto ma molto protetti perché in estinzione… che paese pieno di contraddizioni, che non ha nemmeno firmato l’accordo internazionale Onu sul climate change di New York…

Note di viaggio di Paolo Marini

Indian Nation 2023In partenza. L’app accuWeather è irremovibile: a Las Vegas è prevista pioggia. E nemmeno poca. Anzi, sempre secondo la diabolica app, in questo momento sta già piovendo! Con le temperature precipitate giù di dieci gradi. Sono senza parole. Non riesco neppure ad allibire. In realtà è da un po’ di ore che c’era il timore. Sono due giorni che sto consultando compulsivamente svariati bollettini meteo mentre la chat di viaggio trilla in continuazione sull’argomento. Tutti concordano, maledizione! Per tale motivo, ieri il bagaglio è stato sottoposto a severa revisione con l’ingresso di un leggiadro ombrellino pieghevole arancione. Il cappello impermeabile, quello no. È una questione di dignità. Al massimo una giacca leggera.
E mica pioverà in eterno. E che deserto è sennò? Intanto, però, l’edizione online del Los Angeles Time annuncia trionfante l’imminente approdo sulle coste californiane dell’uragano Hillary. Questo spiega le piogge nei territori limitrofi.
Ma la California, penso, non è nella fascia degli uragani. Leggo infatti che si tratterebbe di un fenomeno eccezionale. Ma come, proprio ora che sto arrivando? Ed ecco quindi che, piano piano, lemme lemme, il fantozziano dubbio della nuvola dell’impiegato si insinua subdolo, ma non riesce a scalfire l’emozione della partenza. Nemmeno ci riesce l’esasperante lentezza dell’addetta al check in di Peretola che mi tempesta di domande (indirizzo in USA, telefono…). Più dura è al bar dove, dopo una lunga coda, mi tocca uno dei peggiori cappuccini della mia vita, il cui unico pregio è evidentemente quello di contenere almeno due etti di caffeina, il che mi sveglia come un grillo malgrado i novanta minuti scarsi di sonno. Il viaggio sarà lungo e per dormire ci sarà tempo.
Frattanto si sale sull’aereoplanino-giocattolo che sta per decollare dall’aereoporto-giocattolo di Firenze. Sta per iniziare il trip da viaggio!
Tiro fuori a mo’ di amuleto, un libro. Un giallo di Tony Hillerman, avventure di un poliziotto di sangue navajo in servizio nelle terre dei nativi nel sud-ovest degli Stati Uniti. Terre desertiche appunto. Mica piovose, accidenti!
Ripenso a quelle previsioni meteo e all’ultimo sguardo dato on line con l’immagine dei californiani che si preparano a ricevere Hillary, apro il libro e proseguo la lettura… il polverone scomparve quando il veicolo scese in uno dei labirinti di Arroyo che trasformavano la vallata in un caotico quilt di erosione… e penso che anche se pioverà, il deserto si asciugherà subito e tornerà a mostrare il suo arcigno e affascinante aspetto di sempre. Quindi Hillary rassegnati, a me non fai paura. Ma passa presto.

Indian Nation 2023A Las Vegas by Edelweiss. L’aeroporto di Zurigo è molto grande, affollato, ma ben suddiviso e organizzato. Un luogo razionale, molto svizzero nel suo nitore architettonico. Costellato di spazi commerciali in cui si alternano cioccolaterie elvetiche, Swatch, orologeria di lusso e la solita galassia noiosa di Brand internazionali della moda, è a suo modo un luogo ingannevole. Lo è poiché frequentato in maggioranza da europei. Percorrendo i suoi lunghi corridoi bordati da bar, birrerie, ristoranti, paninerie tutte uguali e tutte piuttosto care, si ha l’impressione che quella folla di “bianchi” sia ancora una cospicua quota degli abitanti di questo pianeta e non una sempre più piccola seppur privilegiata, minoranza, all’interno della quale io e i miei compagni di viaggio ci imbarchiamo su un Airbus 340-400 rosso e bianco, accolti da gentili hostess in divisa rossa e bianca. La compagnia si chiama Edelweiss ed è quindi la quintessenza della svizzeraggine. Però tale prerogativa si ferma qui. Appena posizionati per partire, il comandante comunica che c’è un problema col software di navigazione. Ci sarà da aspettare. Quanto non si sa. Restiamo seduti. Il problema è che siamo senza aria condizionata e fa un caldo terribile. Come se non bastasse l’aereo torna al gate. Deve svuotare il serbatoio e poi riempirlo nuovamente. Operazione che compie brillantemente. Ce ne accorgiamo perché torna l’aria condizionata. La relazione fra le due cose resta misteriosa. Finalmente si parte, ma con più di novanta minuti di ritardo. Il viaggio durerà oltre 12 ore, passando sopra il sud della Groenlandia, la baia di Hudson, il Manitoba e le montagne rocciose.
Nel frattempo, le hostess biancorossovestite stanno allestendo il lunch. Cosa che mi mette sempre allegria. Malgrado la qualità del cibo in genere pessima. Mi rammento i terrificanti pasti della PanAm sulla rotta per l’Oriente, top di gamma dei miei ricordi, seguito da Indian Air Lines…ebbene devo riconoscere che Edelweiss in questa particolare graduatoria si piazza molto bene. Innanzi tutto, perché vino e birra sono a pagamento! Scelgo un piatto a base di pollo crudelmente annegato in un’insipida salsa multicolore. Accompagnano la povera bestia patate e carote mummificate e un’insalata di striscioline di lattuga e cavolo rosso cui va aggiunto il contenuto di una busta di french dressing, di certo reperito in qualche spaccio di lubrificanti, ignobile, ma perfettamente in grado di macchiarmi la camicia. Un caffè di qualità consona al menù completa il pranzo.
Eppure, l’umore è ottimo. In fondo mangiare in aereo significa che sta andando là dove si vuole. E infatti, a forza di andare, a Las Vegas finalmente ci arriviamo. Sono le tre del pomeriggio, mezzanotte in Italia. La stanchezza si fa sentire. Fortunatamente il clima è mite, 25°. La coda di Hillary ha abbattuto il caldo feroce, portando pioggia le cui tracce sottoforma di ampie chiazze, giacciono sparse dappertutto. Il cielo è grigio di nubi dense che promettono poco di buono. Il torpedone diretto all’albergo avanza pigro su grandi strade che si intersecano fra loro ad angolo retto. Una periferia di case basse si stende anonima prima del centro. Le vie sono bordate di palme, pini dell’Arizona, alberi di pepe rosa, tamerici e strane piante che paiono un incrocio fra un albero e un cactus. Qualche raro prato fa eroica mostra di sé. La città, per antonomasia nottambula, di giorno mostra il suo volto smorto e sonnacchioso. Pare un’attrice ancora struccata, assopita e colta alla sprovvista nel lungo backstage che prelude allo spettacolo che inizierà a buio. I grandi e sconcertanti edifici e attrazioni riposano sotto il cielo senza sole.
Un assaggio di quel che sarà lo si ha arrivando al Luxor hotel dove passeremo la notte. È una piramide con gradoni interni che in realtà sono terrazze su cui si aprono le camere. Non ci sono finestre né orologi nel segno di una strategia precisa che tende a straniare l’avventore, inducendolo a indugiare nel labirinto del gioco. Milioni di led illuminano sterminate distese di slot machine a loro volta piene di luci, immagini elettroniche e cento suoni differenti. Ecco perché in queste sale è sempre notte. C’è già parecchia gente seduta a giocare. Visi amimici di ogni età e mani che meccanicamente tentano la sorte, sovente coppie, uno gioca uno guarda. Immancabile un bicchiere mezzo pieno accanto, gentilmente offerto dall’ hotel che ha tutto l’interesse a farti spendere e tenerti inchiodato lì.
Fuori invece, il giorno spara le sue ultime cartucce. Come resistere a non fare un giro della Strip a guardare, man mano che arriva la notte, il progressivo accendersi dei folli palazzi che la costeggiano? Peccato che mentre si va spunti un improvviso e surreale acquazzone a guastare i piani. Intanto si è fatto buio. Il traffico è sempre vivace e i palazzi sciorinano i loro abiti luminosi migliori mentre si rientra in monorotaia. Il jetlag adesso morde le caviglie. È ora di smettere. Ma alla fine del viaggio torneremo nella città del peccato. See you later Sin city.
Indian Nation 2023Going to Utah. La hall del Luxor hotel è gigantesca. La incornicia da un lato la lunga fila di banconi scuri delle receptions alle cui spalle enormi schermi led trasmettono spezzoni di musica, balletti e spettacoli. Il grande spazio vuoto centrale, sempre molto affollato, termina con una scala che sale ai ristoranti mentre da un lato prosegue, espandendosi nella sala da gioco. Nella hall non c’è neppure una sedia, chi vuol sedere deve farlo ai tavoli delle slot. Tavoli che alle 8 di mattina sono già frequentati. Ad uno di essi siede un cinquantenne dal fisico pesante. Porta una camicia a fiori che trattiene a stento la pancia. Ha i pantaloni corti e le scarpe di tela. Degli occhi non distinguo il colore, ma ne percepisco la precoce stanchezza, certo non attenuata dal caffè contenuto in un bicchierone che tiene in una mano mentre l’altra aziona la slot. Salgo su al Pyramid restaurant, dove l’odore del bacon dà un tocco di normalità a un luogo surreale. Colazione americana e si parte!
Las Vegas ancora non si è ripresa dalla sua ennesima notte brava. Poche macchine a giro. La sfinge del Luxor ci guarda perplessa mentre il bus abbandona lo Strip per percorrere un’immensa periferia fatta non solo di case basse, ma anche di condomini, molti in costruzione, vista la notevole espansione della popolazione verificatasi negli ultimi anni. La monotonia del paesaggio è interrotta da qualche hotel-casinò periferico e dalla mole nero lucido di un grande stadio la cui parete è in realtà un gigantesco schermo su cui scorrono informazioni sulle partite e messaggi pubblicitari. Piano piano la periferia evapora cedendo il posto a un grande pianoro costeggiato da brulle colline. Qua è là compaion le colonnine variopinte delle gas station. Spesso accanto sorge un casinò.
Imbocchiamo l’highway 15. Nel cielo nuvoloso compare una coppia di caccia neri. Minacciosi, volano a breve distanza l’uno dall’altro. Paiono in atterraggio. Forse in qualcuna delle basi segrete del Nevada.
Nel frattempo, la strada si fa ondulata, scarsa la vegetazione punteggiata di Joshua Trees, un cactus tipico della zona. Cresce l’attesa per i paesaggi che verranno, ma prima compaiono villaggi nel deserto composti da linde casette e dall’immancabile campo da golf. Il verde del prato stride con l’ambiente arido circostante e fa riflettere su una gestione dell’acqua quanto meno discutibile. Certo poi se uno pensa a Las Vegas…
Le splendide gole del Virgin river mettono fine a ogni elucubrazione. Ce le godiamo avvicinandoci al confine con l’Arizona. Lo si capisce da un casinò isolato, nato lì perché in quello stato il gioco d’azzardo è proibito. Quello in Arizona è soltanto un breve passaggio. Il pullman punta l’Utah, meta del giorno. E lo fa attraverso quegli spazi vuoti il cui fascino indescrivile mette letteralmente i brividi.
Confine Utah! La nazione mormona ci accoglie con l’ennesima gas station. Un cartello stradale porta un numero all’interno di un segno misterioso. È un’arnia, simbolo dei mormoni che considerano sé stessi come api operose (e un tempo poligame).
Distese infinite di salvia selvatica verde-grigia si estendono adesso a perdita d’occhio. Spuntano alberi e villaggi recintati per difendersi dagli animali del deserto (coyotes e quant’altro). Il tempo peggiora rapidamente, ma chi se ne frega: sembra di essere in un film western, che prosegue al Coral Pine Dune Sands National Park, ondulata distesa di sabbia rossa piazzata in mezzo a colline boscose. Si scende a vedere. Una duna sottile si staglia in mezzo a una piccola valle. Casca una pioggia sottile che conferisce alla sabbia una sfumatura più scura su cui risaltano le nostre impronte che scoprono strati asciutti quasi rosa. In cima alla ripida duna, faticoso arrivarci. Da lì non resisto alla tentazione di scendere di corsa e mi butto giù nella pioggia. Appena arrivato giù, un rombo di motori squote l’aria. Quattro potentissime DuneCars nere irrompono improvvise e velocissime a scorrazzare per le dune. Ognuno si diverte come può. E come sa!
a multicolore a loro volta sollevati, curvati a formare ondulazioni scanalate dagli effetti sorprendenti. Sono come un millefoglie gigante cui una mano ciclopica avesse imposto una rotazione degli strati che appaiono squadernati, ma non sovvertiti, tempestosi, ma non agitati.
Arrivare a Kanab invece è come approdare in un porto tranquillo in mezzo a queste bufere pietrificate. Qui, nei primi anni del ‘900 furono girati tanti e importanti film con intere troupes cinematografiche che stazionavano per mesi, tanto che le è rimasto appiccicato il soprannome di piccola Hollywood. Lungo la strada principale, piccoli cippi di metallo recano su foto e didascalie di attori e produttori che resero famoso per una breve stagione il paese, che per fortuna non ha dismesso tutti i ristoranti, vista la fame con cui ci siamo arrivati. Era tardi, ma un ristorante era aperto. Ci hanno accolto con quello che pare il marchio di fabbrica della gente di qui: il sorriso. E si è mangiato pure bene. E quindi abbiamo sorriso tutti. Pensando alle prossime avventure.
Indian Nation 2023Sorrisi a Kanab. Utah, Page, Hotel Courtyard, breakfast room. Mattina del 22 agosto ore 7:45. In sala non c’è molta gente anche se sta arrivando l’avanguardia di una nutrita comitiva cinese sbarcata la sera prima. Fra i tavoli si muovono giovani camerieri e cameriere, gentilissimi. Hanno capelli corvini, bei visi un po’ orientali dai tratti marcati, tipici dei nativi. Infatti, sono tutti Navajos o Diné, come si definiscono nella loro complicatissima lingua non scritta. Malgrado siano vestiti di nero che notoriamente sfina, colpisce la notevole obesità di tutti, frutto avvelenato di un mix micidiale fatto di genetica, abitudini alimentari sbagliate, sovente alcolismo e attività fisica prossima allo zero. Col risultato di essere ai primissimi posti per esigenze sociosanitarie quali diabete, cardiopatie ecc. Loro non sembrano curarsene e nel frattempo dispensano sorrisi mentre gustiamo un’ottima colazione in questo bell’albergo in stile ibrido, ispirato alle costruzioni locali in adobe. Ci siamo arrivati ieri sera dopo una lunga giornata terminata con le immagini del Lake Powell con la straordinaria diga del Glen Canyon, le cui pareti hanno, a detta di chi ci è stato, la stessa tonalità rosso intenso del Grand Canyon. La strada per arrivare lì parte dalla piccola località di Kanab. È un tratto caratterizzato da rocce multicolori imponenti, fatte a striature orizzontali che vanno dall’ocra al rosso, rese lucide dalla pioggia che oggi non intende proprio abbandonarci. Il paesaggio è veramente grandioso e descriverlo o anche fotografarlo non rende minimamente l’idea della bellezza di questi luoghi. Il prodigio geologico di queste terre meriterebbe ben altre penna e competenza. Prima di Kanab, ad esempio, si incontrano quelle che qui chiamano “Frosted Rocks” che si può tradurre con rocce glassate. Sottili strati di roccia multicolore a loro volta sollevati, curvati a formare ondulazioni scanalate dagli effetti sorprendenti. Sono come un millefoglie gigante cui una mano ciclopica avesse imposto una rotazione degli strati che appaiono squadernati, ma non sovvertiti, tempestosi, ma non agitati.
Arrivare a Kanab invece è come approdare in un porto tranquillo in mezzo a queste bufere pietrificate. Qui, nei primi anni del ‘900 furono girati tanti e importanti film con intere troupes cinematografiche che stazionavano per mesi, tanto che le è rimasto appiccicato il soprannome di piccola Hollywood. Lungo la strada principale, piccoli cippi di metallo recano su foto e didascalie di attori e produttori che resero famoso per una breve stagione il paese, che per fortuna non ha dismesso tutti i ristoranti, vista la fame con cui ci siamo arrivati. Era tardi, ma un ristorante era aperto. Ci hanno accolto con quello che pare il marchio di fabbrica della gente di qui: il sorriso. E si è mangiato pure bene. E quindi abbiamo sorriso tutti. Pensando alle prossime avventure.
Indian Nation 2023Verso Moab. Il pullman viaggia spedito. Siamo in territorio Navajo, la cui presenza è rivelata da modeste isolate costruzioni ottagonali in legno, eredi degli Hogan, le antiche “case” oggi usate solo come luoghi di culto. Immancabile il pickup a fianco, spesso più d’uno oltre a qualche vecchia carcassa di automobile.
Non c’è molto traffico: transitano gigantesche roulottes agganciate a un furgone o campers spaziali. È frequente vederli condotti da coppie di anziani che, venduti tutti i loro beni immobili, vanno girando tutti gli states, fintantoché i soldi e la salute glielo consentono. Poi dopo, chissà: magari spiaggiano la roulotte da qualche parte e lì si fermano. Fino alla fine. In una parabola struggente in difficile equilibrio tra un estremo anelito di libertà e un tramonto malinconico e solitario. Forse una delle chiavi di lettura di questa complessa e affascinante nazione.
Nel frattempo, la strada reclama la scena. Iniziano a comparire le Balanced Stones, pietroni in equilibrio su pinnacoli. Questi ultimi spesso multicolori e di incredibile bellezza. Poi, quasi di colpo una mesa, una lunga montagna piatta, compare alla mia sinistra. È il momento delle Black Mountain dove una miniera di carbone, data in gestione ai Navajo, butta i suoi sassi lucenti su di un treno destinato a una centrale termica. Proprio qui, in mezzo ai parchi!? Contraddizioni americane! Sosta tecnica per approvvigionamenti in un supermarket Dinè (Navajo)! Mi ci butto a capofitto. Quale occasione migliore per osservare aspetti della gente di qui altrimenti invedibili? All’interno musica di sottofondo bellissima che viene voglia di ballare piuttosto di fare la spesa. Grandi spazi per il Mexican food, filari di snacks, soft drinks e una vetrina di dolci che paiono fatti col neon. L’inferno alimentare!
Si riparte e subito compaiono pinnacoli di roccia a indicare che il bivio per Monument Valley è vicino. Passiamo un paese dal buffo nome, Bluff. È molto bello. Due sottili torri rocciose, Twin Rocks, gli fanno la guardia. Magnifiche. Alla successiva sosta tecnica al Seven Eleven faccio il pieno di splendidi sorrisi da parte della cassiera, ma anche di comuni avventori. Gentilezza made in Utah.
Ora la strada sale. E con essa sale l’altezza degli alberi. Tanti pini. Inizia un altopiano dove avvisto per la prima volta campi lavorati. Fanno da preambolo al villaggio di Monticello (si chiama così!). Poche traverse, case in legno di cui molte modeste e spesso male in arnese. Il solito pickup parcheggiato accanto. Chi ci abita? Nativi? Latinos? O magari anche qualcuno di quelli definiti con gergo sprezzante “White Trash” spazzatura bianca, dal colore della pelle di chi nella vita non c’è l’ha fatta?
Adesso Arches National Park è vicino. Il paesaggio cambia nuovamente. A sinistra si erge una parete di roccia rossa mentre a destra un bassopiano è profondamente inciso da un torrente. Al di là del cretto, rare e isolate farm navajo e qualche sparuta pompa dell’acqua con la tradizionale ventola in cima al palo.
Quasi a guardia di ingresso al parco s’incontra Hole in the rock: grande roccia rossa forata, grande scritta bianca, bancarelle di lato. Poco dopo il Colorado River. Quindi Moab, ex villaggio minerario, i cui abitanti, stufi di essere oggetto di scherno da parte dei devoti mormoni poiché i moabiti biblici erano dissoluti e incestuosi, vorrebbero cambiare nome al paese. I numerosi locali stile country-western, gli hotel, i rent-a-bike ne rivelano la nuova veste di capitale dell’outdoor. È un posto simpatico, ma Arches National Park incombe. Forza, borracce piene e via.
Indian Nation 2023Arco & Arcobaleno. Louis, il nostro autista, scartabella frenetico tra i documenti di viaggio. Siamo al casotto d’ingresso a Arches National Park, ma non ci fanno passare. Finalmente Louis il documento giusto lo trova. Fa un urletto di gioia e corre a darlo al ranger. Possiamo ripartire. Il tempo è incerto. Minaccia pioggia. La strada s’inerpica in poderose curve. Il paesaggio, già bello, diventa indescrivibile. Come colossali guardiani di pietra, enormi torrioni rossi ci danno il benvenuto. Anche la pioggia ci battezza, iniziando a cadere. Ma oggi non ci fermerà nessuno.
Passiamo accanto alla roccia sospesa, uno dei simboli del parco. La pioggia abbozza. Le nuvole invece si addensano. Si parte comunque verso the Delicate Arch, il più famoso dei duemila archi di questo parco. Che è anche il simbolo dell’Utah che lo ha riprodotto perfino nelle targhe delle automobili.
In realtà qualche dubbio serpeggia, ma solo in relazione a come vestirsi: impermeabile, ombrello o nulla.
All’inizio del sentiero troneggia un cartello minaccioso: il caldo uccide! Monito dei rangers a non scordare di portare con sé acqua. Oggi caldo non fa certamente, ma tutti l’abbiamo.
La salita si svolge fra lastroni di pietra variegata nelle cui commessure crescono pini nani e soprattutto ginepri spettacolari. Sono piante secolari dai tronchi rugosi, curvi e tormentati come lottatori. Sovente hanno molti rami secchi, ma da altri il verde rispunta vigoroso in una coreografia vegetale straordinaria. Su uno si essi, uno scoiattolo dalla coda grigia indugia un attimo per poi dileguarsi. Pieghiamo a destra di una cresta e giungiamo in vista di un anfiteatro roccioso al centro del quale si è sviluppato un nido di vegetazione. La vista è mozzafiato.
Peccato che al di sopra l’arco appare visibile solo di lato. Scendiamo per poi risalire per raggiungerlo. Inizia a piovere e a tirare un vento fortissimo. Dalla parte opposta in alto compaiono delle persone. Solo adesso ci rendiamo conto di aver sbagliato versante. Bisogna tornare indietro, risalire, aggirare la cresta e raggiungere l’arco in modo da poterlo avere di fronte. E il vento imperversa! Per fortuna il posto ripaga ampiamente la doppia fatica. Pioggia e vento ci danno finalmente tregua. L’arco dal lato giusto è nostro! Superbo, grazie anche a un contorno indescrivibile.
Il sole, impietosito, strappa la coltre di nubi, offrendoci una discesa fra strappi di luce livida che cambia i colori attorno a noi. In basso, fra i cespugli, compare un coniglio dalle orecchie lunghissime. Resta lì, immobile e perplesso. Il sole si copre e si scopre. Indeciso. Alla fine del sentiero compare una cerbiatta. Salutiamo anche lei. Dispiace andarsene, ma la giornata sta davvero finendo. Non per sole e pioggia che decidono di esibirsi assieme, accendendo d’un ultimo fuoco la montagna e regalandoci all’ultimo tuffo, sui tornanti finali un enorme arcobaleno. Beh, sì, per oggi può davvero bastare.
Indian Nation 2023Across the Rocky Mountains. Supermarket di Moab. Io e tre utenti perplessi discettiamo su alcuni pezzi di formaggio sigillati, messi in un cesto vicino all’ingresso. Guarda che roba! Cosa? Ma non lo vedi cosa c’è scritto? Reggiano, e allora? Ma come allora? È finto, guarda il marchio sulla crosta! Dai…è vero. Viene dal Wisconsin…che bastardi! Stabilita la falsa origine del parmigiano, il gruppo giudicante si scioglie e io mi rimetto in cerca di qualcosa da mangiare per dopo. Frutta in particolare che di carne non se ne può proprio più. Non rinuncio, però, al tradizionale tour degli scaffali, scoprendo gli imperdibili spaghetti marca American Beauty. Siamo in ritardo. Due parchi in programma con ancora negli occhi la bellezza di the Arches. Mi domando se saranno all’altezza. All’altezza lo è senz’altro la strada che porta al primo: il Canyonland National Park. Dopo una serie di curve si arriva a un altopiano. Canyonland è immenso. Posto a circa 2000 metri slm, è uno dei più selvaggi. Ne cibo né acqua sono reperibili al suo interno.
È un compendio di tutti i grandi parchi: possiede spaccature vertiginose come quelle visibili al Grand View Point dove il Colorado accoglie le acque del Green River, torrioni, pinnacoli, Balance stones e un arco di pietra il Mesa Arch, che cambia colore a seconda dell’ora, affacciato su di un teatro di pietra indescrivibile. Manca solo di vederci passare sopra Willy coyote in eterna caccia di Roadrunner.
Uscendo da Canyonlands si entra poi nel piccolo, magnifico Dead Horse Point, orgoglio dello stato dell’Utah nonché set della scena finale di Thelma e Louise, che offre lo spettacolo in primo piano delle acque sempre più scarse del Colorado (sempre lui!), che si fanno pigramente strada disegnando una profonda curva dalle altre pareti rosse e dal fondo verdeggiante. Il posto è così bello che ci fermiamo per un lunch fugace.
E ora si cambia. È un viaggio pieno di spostamenti. Adesso sì va a sud-est verso le montagne rocciose e lo sconosciuto villaggio minerario di Silverton.
Sì attraverserà il cuore profondo del sud-ovest degli USA. Un cuore povero, prevalentemente bianco e conservatore.
Le strade si fanno sempre più diritte. Veniamo superati sovente dai lunghissimi autotreni che il cinema ci ha fatto conoscere. Visti da vicino questi “mostri” fanno ancora più impressione con le cromature lucenti, gli scarichi verticali e la cabina così alta che spesso non si capisce nemmeno se dentro c’è qualcuno. Immagine quest’ultima, perfettamente sintetizzata da Steven Spielberg in “Duel”.
Molti di questi Trucks sono di corrieri e la cosa non deve stupire. Siamo nella terra dove è stato inventato l’home delivering ed è proprio in posti come questi che tale usanza ha ragion d’essere. Qui non c’è niente! Ne cinema, teatro, librerie. C’è la scuola (in forte degrado) e poi? Bar, birrerie, un supermarket. Quando vedo posti simili mi chiedo sempre cosa fa la gente per svagarsi. O per istruirsi… un esempio è la cittadina di Cortez: attorno immense distese di campi coltivati, qualche traversa, capannoni anonimi, povere case malmesse, i soliti pickup scassati. Qualche motel (Mesa Verde e Monument Valley non sono lontane). Oltre a ciò, poco altro.
La strada intanto è cambiata e i miei pensieri smettono di vagare. Sono comparsi gli alberi. Dapprima a ciuffi sempre più fitti fintantoché si è firmato un bosco. Siamo arrivati alle grandi foreste di San Juan. Iniziamo a salire i contrafforti delle Montagne Rocciose. Non prima di aver attraversato la verdissima e graziosa Durango oltrepassata la quale la strada s’inerpica mentre inizia a piovere di brutto.
Il panorama è comunque magnifico. Si susseguono pini, betulle e un particolare tipo di abete agile e sottile e dal colore verdegrigio-blu che è tipico di queste parti.
Poche le macchine a giro, ma, dall’arditezza dei sorpassi, arguisco che alcuni abitanti della zona devono ritenere un onore morire al volante.
La salita pare non finire mai. Finalmente il passo: Coal Bank Pass. Sulla carta è indicata un’altezza di 10610 piedi slm che fanno ben 3234 mt. Pazzesco.
Indian Nation 2023Waiting for Clint. Immaginiamo un tardo pomeriggio d’agosto nella foresta di San Juan, Colorado, dove un manipolo di turisti italiani si trova in pullman in fondo alla discesa dai 3240 m del Coal Mine Pass. E piove a catinelle e fa pure freddo. Immaginiamo poi che i nostri eroi abbiano fame. In un territorio dove i ristoranti dei villaggi chiudono in genere tra le 18 e le 20. E ora sono già le 19. E che gli umani stanziali più vicini siano i 640 abitanti di Silverton, vecchio insediamento minerario oramai a pochi chilometri e 2840 mt di altitudine.
Immaginiamo infine il loro stupore nel trovarsi scaricati di fronte al Grand Imperial Hotel, risalente al 1882 con annesso saloon dove una fila di avventori con giacconi a quadri, stetson a tesa larga, camiciona e fazzoletto, sono già seduti al bancone con vari boccali di birra ormai vuoti.
Lo stupore si trasforma poi in incredula gioia appena entrati nella hall dove troneggia un grande bancone di legno scuro con alle spalle una specchiera, alla parete rivestita di stoffa è appoggiato un orologio a pendolo. L’atmosfera western è completata da un pianoforte verticale, posto all’entrata. Succede poi che la receptionist scateni l’entusiasmo generale, permettendoci di cenare nella sala attigua in continuità col saloon. Lì, sotto un’enorme testa di alce imbalsamata, due cowboys che paiono comparse degli “Spietati”, siedono a tavola l’uno di fronte all’altro. Sono di mezz’età, tarchiati, uno decisamente sovrappeso. Immancabili i cappelloni d’ordinanza, che non tolgono mai. Hanno cinture con borchie d’argento, pantaloni stretti. Uno dei due ha un fazzoletto cremisi annodato al collo. In vita porta un coltello in una custodia di stoffa. Poco dopo il nostro ingresso si alzano e si spostano verso il saloon.
Noi cominciamo a cenare. Ogni tanto io alzo uno sguardo verso il bancone.
Diamine Clint, manchi solo tu!
Indian Nation 2023
Ragtime. Risvegliarsi fra i legni del Grand Imperial Hotel non fa che confermare le impressioni della sera. Le scale scricchiolanti conducono alla breakfast room dove la colazione è buona almeno quanto la gentilezza di chi ce la offre.
Oggi in programma c’è il trenino minerario che da qui porta a Durango attraverso la gola lungo il fiume. Prima un giro di Silverton, che mostra quanto bene si sia mantenuto il suo aspetto di villaggio di minatori (argento in particolare) pur riconvertendosi al turismo e agli sport outdoor. La natura intorno peraltro è magnifica con boschi a perdita d’occhio e montagne di oltre 4000 mt e dove resiste ancora qualche chiazza di neve.
In paese non c’è molto da vedere, qualche vecchio edificio, negozietti, ma il museo che conserva la memoria del luogo vale la pena. Anche se un po’ caotico vi si trovano oggetti della miniera, del vecchio quotidiano che qui si stampava fino a qualche anno fa e della giustizia con la casa del Marshall e la prigione (il paese è stato teatro di sparatorie, omicidi, linciaggi come si addice a una vera località del west).
Il lunch al Grand Imperial riserva la sorpresa del pianista. Un anziano, arzillo signore che ci fa compagnia a ritmo di ragtime aumentando così la suggestione del luogo
Davanti all’hotel, in luogo dei cavalli, assieme a alcune Harley Davidson appartenenti a turisti, sostano giganteschi Suv dal muso così alto da farli sembrare camion e enormi Pickup talvolta con un argano montato davanti per trarre o trarsi d’impiccio. Sul cofano di uno di essi c’è un adesivo: due mitra AK47 incrociati e la scritta “Liberty or Death” con un richiamo al II emendamento della Costituzione: libertà di avere un’arma innanzitutto.
La sera prima una guardia si è materializzata per fare spostare il pullman. Armata fino ai denti! No, decisamente non è tutto oro (o argento) quello che riluce a Silverton.
Indian Nation 2023Mesa… delusione. Graziosa è Durango, cittadina turistica immersa nel verde delle Rocky Mountains, punto di partenza per svariate destinazioni, compresa Mesa Verde, meta odierna.
La strada per arrivarci digrada dolcemente tra i boschi, passando poi per campi coltivati fino al superbo complesso architettonico del Visitors Centre. Da lì inizia a salire con una serie di tornanti la montagna piatta, cosparsa di tronchi d’albero rinsecchiti. È tutto ciò che rimane di un gigantesco incendio che ha sconvolto la Sierra nel 2002, cui non ha fatto seguito né ricrescita né rimboschimento.
La cattiva notizia giunge mentre ci stiamo avvicinando alla meta. A comunicarla un costernatissimo e incredulo Gimmy, nostro tour leader: causa un inspiegabile disguido non risultiamo prenotati per le visite guidate al sito. E la cosa non è più rimediabile… e pensare che io mi ero immaginato a spasso per quei luoghi. Gli stessi che ispirarono nel ’54 Carl Barks per gli sfondi della celebre story di Paperon de’ Paperoni “The Seven City of Cibola” e che Spielberg copiò per la scena iniziale dei Predatori dell’Arca Perduta…
Com’è ovvio la visita prosegue comunque con spostamenti nei vari view point, ma sono svogliato e deluso.
Però anche così il posto è straordinario. Scatto qualche foto di prammatica. Ma quando si giunge ai siti di Balcony House e Cliff Palace resto comunque stupefatto. Il colpo d’occhio del canyon con la palpebra di pietra che pare proteggere le costruzioni degli Anasazi (quelli che c’erano prima in lingua navajo) è impressionante, ma il dispiacere rimane. E chi ci tornerà più qui?
Dopo pranzo si riparte. La strada è lunga. Taos è lontana. Alla fine, ci vorranno 6 ore di pullman.
Il confine col New Mexico arriva tra immensi boschi di conifere. La strada sale dolcemente, ma accidenti quanto sale!
Ora compare una vasta prateria punteggiata da vacche dalla livrea nera. Siamo in territorio Apache appartenenti alla tribù Jicarilla. Ma non se ne vede uno. Di nuovo ricompare il bosco. Avvisto diversi cervi. L’altimetro dei miei compagni di viaggio tecnologici segna 3200 mt slm! Finalmente s’inizia a scendere.
Allorché finisce il bosco, questi cede il passo a un altopiano di vegetazione bassa e cespugliosa. Il tempo è incerto. È piovuto da poco e un arcobaleno svogliato fa capolino, la luce di fine pomeriggio è molto bella. Qua e là per i campi, in lontananza, roulottes bianche come grandi chicchi di grandine. Insediamenti di gente povera.
Non si arriva mai.
Compaiono stranissime case circolari. Progetti di abitazione ecocompatibile. Sarebbero da approfondire, ma non c’è tempo. Prime abitazioni di Taos. Qualche interessante costruzione in finto adobe, ma soprattutto, improvviso, un ponte a oltrepassare il bellissimo canyon del Rio Grande. Con questa luce crepuscolare è un peccato non potersi fermare. Nel buio si vedono brillare le insegne dell’unico ristorante che pare ancora aperto.
No, niente sorprese tipo Grand Imperial of Silverton: è solo il Guadalajara grill, Mexican food.

Señoritas y señoritas. Gli abiti sgargianti delle señoritas balenano al centro della Plaza de Santa Fe al suono dell’orchestrina messicana. Sabato di festa. Ballano ragazze e prima di loro tocca alle bambine. Graziosissime nei loro vestitini multicolori muovono svelte i piedi calzati in scarpette col tacco come quelle delle grandi. L’orchestra mariachi prende vigore. Adesso tocca a los hombres bailantes. Sono in due. Mezz’età, uno abbastanza più vecchio dell’altro, anche in carne. Elegantissimi nell’abito nero bordato di borchie d’argento. Sombrero d’identico colore. Bianca la camicia. Stivaletto a tacco alto con cui ritmano la musica in gesti secchi e sobri. Il rientro in pista de las mujeres accende la scena. Ampi i gesti delle donne sempre compassati los hidalgos. La folla presente reagisce con applausi e fischi di approvazione. Io spero sia un ballo propiziatorio capace di impedire si guastino altri programmi. Eh sì perché stamane il Pueblo di Taos era chiuso agli estranei per cerimonia tradizionale. E lo resterà per un po’! Quindi niente visita. Solo la consolazione del museo dedicato a Kit Carson e al suo controverso operato e la gradita scoperta della splendida magione di Mabel Dodge, straordinaria interpretazione dell’architettura locale. Non resta altro che abbandonare questa graziosa cittadina e le sue eleganti case in stile messicano. Sulla strada per Santa Fe il pullman trova il tempo per una sosta al Gorge bridge, dove un ancor esile Rio Grande, da non molto partorito dai monti di San Juan in Colorado, scorre incassato in un canyon spettacolare. Avrà da percorrere altri tremila chilometri prima di arrivare al mare! E a Santa Fe uno che fa? Elementare: gira per gallerie d’arte! Canyon Road ne ha a bizzeffe, alcune notevolissime. Con installazioni fisse e temporanee. Ed è famosa in tutto il mondo. La città ha un nucleo originale con interessanti costruzioni in Adobe e la più vecchia chiesa degli States. Essendo molto amata per il clima non solo meteorologico, ma anche umano e culturale, è divenuta meta radical chic ed ha subito una pesante gentrificazione del suo centro storico.
Ma oggi i suoi abitanti latinos si son ripresi la piazza. Peraltro, sono almeno la metà della popolazione e qui lo spagnolo lo parlano tutti. Le danze proseguiranno chissà per quanto. Adesso tocca a ragazze di età intermedia. Il Mariachi suona e canta che è un piacere, ma è il momento di andare via.
Next stop in Albuquerque. La città delle mongolfiere di cui a settembre c’è il festival più importante del mondo. Anche la città della bomba atomica perché Los Alamos è a quattro passi da qui. Anche luogo dove Bill Gates e Paul Allen fondarono Microsoft. Anche luogo dove sono entrato per la prima volta al Twin Peaks, tipico bar sport di una catena molto diffusa in tutti gli States. Si mangia e si vedono le partite. In realtà si mangia in un clima distopico sotto 12 grandi schermi TV che trasmettono 6 programmi differenti, ma il sonoro ce l’ha uno solo. Tavoloni con sedie alte e un bancone tipo moderno saloon sono occupati prevalentemente da uomini. A correre fra gli avventori, vestite con camicetta annodata al seno, mini-shorts in jeans e stivaletti bianchi bordati di finta pelliccia, ragazzine di piccolissima statura e, apparentemente, giovanissima età. Molto brave e forzute prendono ordinazioni a raffica e con grande disinvoltura portano grandi vassoi ed enormi boccali di birra. Sorridono e corrono. Nel frastuono del locale sono ciò che è più silenzioso. Ma resta la sensazione che i criteri di arruolamento non siano attitudinali, ma piuttosto, come dire: organolettici. Ovvero bell’aspetto e, soprattutto decolté generoso e idoneità a indossare quella tenuta da cheerleader già ridicola ai rodeos. E a me i rodeos non piacciono.

Indian Nation 2023Resilienza. Ad Albuquerque non c’è nulla da vedere. Questa è l’idea che mi ero fatto. E quindi mai mi sarei aspettato di vedere una strepitosa Buick anni ’50, 4700 cc di cilindrata, parcheggiata nella Plaza Vieja, giusto di fronte alla chiesa di San Filippo Neri.
Il giovialissimo proprietario, saputo che siamo italiani, inizia a parlare spagnolo. Dice che il suo bolide, del quale è assai orgoglioso, fa 20 km con un gallone di benzina. Immagino perciò che l’usi solo la domenica per farsi vedere in piazza e non certo per fare l’Highway come noi. Si va a ovest in piena Nazione Navajo. Lungo strada un cartello riporta una scritta: “Lucky Leaf Expo”, al centro una foglia di cannabis, il cui consumo in New Mexico è legale. Nel frattempo, transita di tutto: tracks che qui sembrano ancora più grandi, campers enormi. Notato uno che trainava una fiat 500. Non si sa mai per i piccoli spostamenti… A fianco della strada corre una ferrovia che da queste parti è riservata solo alle merci. Poiché siamo negli States tutto è amplificato: passa un convoglio. Conto le motrici. Sono cinque! Quanto ai vagoni, a ottanta mi fermo!
Il pullman abbandona l’Highway e punta deciso verso Acoma Pueblo. Ora solo rocce e steppa. Paesaggio eccezionale. Il Pueblo si trova su un’altura piatta circondata da grandi rocce in un ambiente estremamente suggestivo. All’arrivo al Visitor’s Centre veniamo trasferiti in vecchi bus per essere portati in cima. Saliamo tra blocchi di arenaria arancione. Il luogo è magico. Ci aspettiamo un attacco dei pellerossa, ma l’unico presente sta guidando il pulmino. Giunti in cima, ci accoglie Jeremy, guida pueblo. È un ragazzo di meno di trent’anni, capelli corvini, pelle scura. Alto 1.90, già gravemente obeso come tanta di quella gente. Indossa un paio di occhiali da sole polarizzati che rimandano riflessi arcobaleno. Inizia un giro che è entusiasmante e al contempo commovente.
Ciò che è intorno a noi è tante cose, ma Acoma Pueblo è soprattutto un gigantesco monumento al genocidio dei nativi, lì operato in primis dagli spagnoli che, assetati di oro, nella seconda metà del Cinquecento non esitarono a uccidere, mutilare e deportare l’intera popolazione del Pueblo che rimase per decenni disabitato. Pian piano vi fu un ritorno dei nativi, ma accompagnati da preti (misionarios) che imposero loro una conversione forzata al cristianesimo con proibizione di praticare i vecchi culti e perfino di parlare la lingua nativa. Furono anche obbligati a costruire una chiesa, San Esteban del Rey, ancora in piedi oggi con la sua struttura in adobe. L’interno della chiesa, in cui vige il divieto assoluto di fotografare, è però uno degli ambienti religiosi più straordinari che abbia mai visto.
Bisogna immaginare un’unica navata larga una ventina di metri e alta poco meno, tutta in paglia e fango. Il soffitto è costituito da una fitta serie di enormi tronchi di pino ponderosa appoggiati su grandi mensole lignee a guisa di un ciclopico graticcio. La parete di fondo è mirabile. Si rifà ai retablos delle cattedrali spagnole con due gigantesche colonne di pino lavorate a torciglione, poste in verticale, che aiutano a suddividere lo spazio in quadrilateri occupati da statue e immagini. Sulle pareti laterali sono dipinti segni e simboli di devozione. In uno si osserva un arcobaleno che sovrasta una pianta di mais blu, il loro principale nutrimento. Ma anche un simbolo della religione ancestrale, che essi mantennero di nascosto e che ha fatto sì che oggi coltivino un culto religioso sincretico.
I fanatici misionarios (e neppure Kit Carson!) non avevano tenuto infatti conto delle eccezionali doti di resilienza di quel popolo che mantenne in segreto lingua, culto e costumi, affidando tutto alla parola tramandata, poiché non hanno scrittura. Per tale ragione Acoma Pueblo ancora oggi sopravvive malgrado la mancanza d’acqua, di elettricità e luce in un isolamento che ha anche carattere simbolico di resistenza e riscatto.
Il panorama da quassù è davvero straniante. Mesas gemelle e disabitate si ergono a varie distanze. A una quarantina di miglia si staglia una verde cima di oltre 4000 mt di altezza. È da lì che provengono i tronchi degli alberi con cui fu costruita la cattedrale. Narra la nostra guida che quelli destinati al retablo non potevano toccare mai il suolo nel loro viaggio dal bosco alla chiesa e se ciò accadeva, occorreva procurarsi un nuovo tronco.
Mentre ascolto le ultime parole di Jeremy, osservo le facce dei nativi. Un ragazzo sbuca da un portone, ha carnagione scura, porta i capelli lunghi raccolti in una lunga treccia, una bella faccia che sarebbe piaciuta a John Ford. Sorride e sparisce dentro a un pick-up. Una vecchia dalla faccia grinzosa viene a vedere che succede. È piccola piccola. Due occhietti neri a spillo. Saluta e si siede all’ombra. Altri stanno lavorando alla manutenzione dello straordinario cimitero che si estende davanti alla chiesa.
È il momento di andare. Ciao Pueblo e ciao anche New Mexico, luogo bellissimo dalla luce tersa e dagli immensi spazi vuoti. Adesso è il momento dell’Arizona.
Indian Nation 2023Navajoland. A Gallup, per molti anni importante location di tanti western, il New Mexico cede il passo all’Arizona. All’Alfredson’s foodstore di Gallup finisce la vendita degli alcolici per iniziare la zona alcolfree della nazione Navajo.
Al confine dei due stati, le lancette dell’orologio andrebbero messe indietro di 60′ perché l’Arizona adotta l’ora legale e il New Mexico no, ma nella nazione Navajo l’ora resta quella del New Mexico. Qui all’ovest quella degli orologi è una battaglia persa che si combatte non solo tra Pacific standard time e Mountain standard Time, ma anche tra le varie eccezioni!
Nel frattempo, si compra qualcosa da Alfredson e io mi sbizzarrisco fra gli scaffali in cerca di etichette bizzarre. Imperdibile la fila di bottiglie con etichetta-teschio, da bere per la festa messicana de los Dias de Los Muertos. Rilevante anche l’aceto balsamico Botticelli. Rilevante anche l’utenza, fatta di un mix di nativi e ispanici accumunati da opinabili scelte alimentari le cui conseguenze sono facilmente desumibili dalle loro silhouettes.
La bella strada verso Chinle prosegue con struggenti rettifili interrotti all’orizzonte dal ciglio piatto delle mesas. Di rado una curva a spezzare la noia del drivers finché si arriva a Chinle, porta d’ingresso alla Navajo Nation nonché al Canyon De Chelly. Gli abitanti di qui sono quasi tutti nativi, ma a giro non si vede anima viva. Il paese appare deserto e desolato. Preceduta dai tralicci e dagli isolatori di una centrale elettrica, compare una lunga sequenza di modesti edifici, sparpagliati in una landa polverosa. Inizia la bassa sagoma di un centro dialisi. Fanno poi bella mostra di sé le insegne di un campus scolastico, un Churchs Meal (fast-food) tristemente isolato, i prefabbricati azzurri del Chinle Youth correction Camp ovvero un riformatorio (per giovani Navajos). Il paese appare del tutto destrutturato e diffuso in tante casette di legno. Ad un tratto una chiesa appare sulla destra. Anch’essa in legno e con un annesso ottagonale a guisa di Hogan. Tanto per ribadire il sincretismo religioso che vige in queste zone.
Dopo qualche curva polverosa appare l’Holiday Inn, vera oasi in tanto abbandono. L’hotel è la porta d’accesso al Canyon de Chelly, dove andiamo la mattina successiva.
Questo Canyon ha due caratteristiche salienti.
La prima è che si pronuncia in modo assurdo (desciái), la seconda è che è di una bellezza sensazionale. Io me ne sono innamorato a prima vista. È costituito da due entità, Canyon de Chelly e Canyon de El Muertos. Le sue pareti cambiano durante il giorno da rosso scuro a rosa e arancione. Sono ripide sì, ma allo stesso tempo sinuose, ha guglie sorelle chiamate Spider Rocks e centinaia di altre straordinarie formazioni. Ma soprattutto è un posto vivo. Infatti, è abitato da 4800 anni. Dopo i primi cacciatori, vi si insediarono, come a Mesa Verde, gli Anasazi, costruendo Pueblos a strapiombo, le cui rovine mozzafiato sono visibili anche oggi. Quando gli Anasazi sparirono misteriosamente, pian piano giunsero i Navajos che ne occuparono il fondo per coltivarlo. Cosa che fanno tutt’oggi malgrado gli spagnoli prima e Kit Carson dopo abbian fatto di tutto per scacciarli e cancellarli. Quindi questo è anche un luogo della memoria. Così come lo è il museo navajo di Windows Rock, capitale e sede del governo di Navajoland. Un bell’edificio, costruito accanto a una spettacolare roccia cava, che cela tutto il rimpianto per tempi felici e l’orgoglio e la volontà di riappropriarsi del proprio passato per creare un futuro meno amaro di un presente ancora assai problematico.
Indian Nation 2023Take It Easy. Lasciare Chinle significa lasciare Canyon De Chelly, posto che vorresti percorrere per ogni dove per giorni e giorni.
Per elaborare il lutto di tale abbandono, ai confini di Navajoland, si fa sosta all’Hubble trading post, un posto ai più sconosciuto (ma non a Gimmy!), ma non privo di fascino. Luogo simbolico del tentativo riuscito di pacificazione tra nativi fiaccati dalle angherie dei bianchi e l’intuizione di mr. Hubble che, innamoratosi del popolo Dinè, ebbe con loro un rapporto fecondo e rispettoso che portò alla creazione nel 1872 di questo spazio originale tuttora gestito dai nativi e comprendente uno spaccio, stalle e piccolo museo.
Per non farsi mancar nulla, mentre la truppa è impegnata a saccheggiare lo shop dei suoi peraltro interessanti prodotti, scoppia la grana: uno dei nostri ha lasciato il passaporto a Chinle! Troppo tardi per tornare indietro. La soluzione è difficile finché Gimmy pesca dal cilindro il coniglio. Sottoforma di una giovane (e francamente bella) ranger navajo che si materializza come dal nulla. In un accrocco diabolico, ma geniale, andrà lei a prendere il passaporto mentre il pullman proseguirà il suo percorso scaricandoci alla prima destinazione per poi tornare allo spaccio a prendere il documento e il titolare del passaporto che resterà a attendere.
È anche il momento del Pacific Time: orologi indietro di un’ora. Non mi piace. Significa che il giro volge al termine, ma ha ancora qualche colpo in canna da esplodere. Sottoforma della selvaggia bellezza del deserto dipinto e della foresta pietrificata.
Fa già caldo quando il panorama inizia a cambiare. La vegetazione scompare come abbrustolita. Basse ondulazioni seguite da rughe sempre più profonde si susseguono e pian piano quella desolazione prende colore. La natura, sapiente imbianchino, accumula strati di sasso di tinte varie e mutevoli, disposti in orizzontale e poi sollevati e mossi in onde d’un lago minerale di cui si riconoscono i componenti. C’è il nero del basalto vulcanico, i toni rossi delle sabbie, il grigio-azzurro dell’argilla e in alto un deposito bianco a sigillare l’arcobaleno geologico. Un mondo a parte che pare lo sfondo di una graphic novel di Alex Raymond ambientata sul pianeta Mongo, dove aspetti di incrociare Flash Gordon. Magari in una foresta pietrificata come quella che “cresce” nel deserto dipinto. Rimane difficile immaginare tronchi di pini giganti di più di 200 milioni di anni, alti in origine quaranta metri, giacere intatti con i particolari della corteccia, le inserzioni dei rami, a volte perfino resti delle radici. Affascina avvicinarsi e distinguere gli anelli d’accrescimento. Soprattutto constatare che tutto quello che vedi è fatto di quarzo colorato. Quello che in gemmologia è chiamato diaspro. Pini di pietre dure… sul deserto dipinto, dietro un cielo turchese.
Nel frattempo, il bus è andato e è tornato, riportando il passaporto e il suo proprietario. La ranger non voleva niente. Ha accettato un compenso solo dopo una certa insistenza. Felice, riunita e interamente passaportodotata, la truppa accaldata (nel deserto il sole picchiava come un fabbro) riparte.
Incrociamo l’assurdo paese di Holbrook con le case basse calcinate dal sole a picco e dove esiste un bizzarro motel le cui casette sono in realtà dei teepee (tende) pellerossa. Il paese è preceduto da uno sterminato deposito di tronchi fossili provenienti da terreni privati e di cui è permessa la commercializzazione. Infatti, sono richiestissimi.
L’inconveniente del passaporto ha rubato tempo utile e bisogna correre.
Epperò il tempo per Winslow va trovato. La cittadina si trova sulla route 66, mitico collegamento tra Chicago e Los Angeles. Winslow è nota per esser contenuta in una strofa di una grande hit degli Eagles, Take It easy (…Well, I’m a-standing on a corner/In Winslow, Arizona/Such a fine sight to see/It’s a girl, my Lord/In a flat-bed Ford/Slowin’ down to take a look at me…). Ed è per celebrare il Californian Way of Life che proprio lì, Standing on the road foundation plaza, si trova il vecchio furgone Ford. Attorno un bar colorato (e caro!), buffi tizi molto datati west coast style, un paio di Harley Davidson e tanta nostalgia. Ma non c’è tempo di rifiatare e siamo già correndo. Il Meteor Crater è una cosa che uno crede esista solo nei film. Invece l’enorme scodella di ¾ di miglio di diametro per cinquecento piedi di profondità, generata quasi 50.000 anni fa dall’impatto di un meteorite ferroso di 46 metri esiste e impressiona. La luce inclinata del vicino tramonto, una brezza che smorza il calore, l’assenza di folla perché è ora di chiusura… tutto fa sì che il luogo induca quella suggestione che deriva da un simbolo della potenza devastante dei fenomeni naturali.
La giornata finisce a Flagstaff, florida città in mezzo ai grandi pini ponderosa, base per il Grand Canyon o per chi, come noi, rientrerà a Las Vegas. Le cartucce sono state sparate tutte. O quasi. E così che raccolgo il suggerimento di un amico: stasera tutti al mitico Museum Theater a ascoltare musica in un locale mezzo saloon sulla route 66. Aperto nel 1932, tempio del country. Un luogo dov’è possibile anche un buon boccale e una T-Bone al sangue. E dove abbiamo trovato… il karaoke! Bello il posto. Tutto legno, dentro e fuori, però cucina chiusa, base musicale a palla, quattro ragazzotti in pista a ballare che ci guardano come alieni e io lì come un salame. Mi spiegano che dopo il Covid non si sono più ripresi… finiamo lì accanto da Taco Bell a mangiare roba messicana mentre stanno dando il cencio in terra prima di chiudere.
Il tassista che mi riporta a casa è lo stesso dell’andata. È un mingherlino, barba bianca, faccia piena di rughe. Dimostra una settantina d’anni, ma forse ne ha meno. Ogni tanto tira su un sorso di qualcosa da un thermos. Spero sia caffè per stare sveglio la notte. Ha due occhietti vispi e la voce un po’ rauca del fumatore. Chiede com’è andata nel locale. Farfuglio una risposta imbarazzata nel mio farfugliante inglese. Si accorge chiaramente che sono seccato. E lui inizia a conversare
Lei è italiano, vero?
E di dove?
Firenze
Oh, bello. Io di cognome faccio Pagliarulo e i miei venivano da Ravello
Lo sa che Ravello è un posto bellissimo. C’è mai stato?
No. So solo che là ci sono belle piante di limone
E io lo guardo e mi dico: Take It Easy!

Fuga da Las Vegas. Un sole protervo arroventa già da due ore Las Vegas, ma nei saloni senza finestre dei casinò non ne entra un raggio. Non ci sono orologi e si capisce che è mattina dall’andirivieni operoso degli addetti alla pulizia e dalle slot machine poco affollate. La città che non dorme mai è reale e anche qui, nel ventre dell’hotel Luxor, è la regola. In questo albergo insensato a forma di piramide, dove gli ascensori scorrono obliqui e l’ingresso ha colonne giganti istoriate da falsi geroglifici, tra le 8 del mattino e le 3 del pomeriggio di 5 giorni su 7 si compie un rito: il Pyramid Buffet! Basta spendere una trentina di dollari, procurarsi il voucher, scendere i gradini che portano a una grottesca cripta faraonica e attendere con pazienza l’apertura dei cancelletti. Una volta entrati, ci si trova di fronte a una distesa di cibo di sconfinata vastità. C’è di tutto. Vuoi pesce? Lo trovi, compresi cozze e gamberetti. Mangi italiano? Prendi una pizza! Vegetariano? Ti attende una distesa di verdure che pare il mercato. E carni d’ogni sorta, cotte in ogni maniera. E poi pani, cerali, frutta, ogni foggia di yogurt, latte, caffè, tè, infusi, succhi, bevande gassate. E ancora formaggi, salumi, uova cotte come vuoi tu. Un Bengodi, che pare l’evoluzione distopica di quello di boccaccesca memoria, ma perfettamente in sintonia con l’ambiente circostante. Anche l’orario è dilatato per consentire a tutti di poterne usufruire. In questa chiusa foresta alimentare si muove una fauna variegata e cosmopolita. Talora sconcertante come il gruppo familiare di turisti italioti, capitanati da un adulto maschio-alfa-de-noantri biancovestito da comparsa da cinepanettone, che urla comandi al clan al suo seguito che lo asseconda con gridolini di giubilo a ogni nuova scoperta gastronomica. I mostri riescono a sorpassarmi, dando l’assalto ai vassoi delle crêpes, bramando vogliosi di completare piatti già zeppi a cupola. Mi ritraggo sconcertato, non senza prima essermi per dispetto appropriato dell’ultima crespella disponibile. Mentre mangio il frutto della mia modesta razzia, guardo e ho l’immagine di un luogo paradigmatico dell’immenso spreco (alimentare, energetico, sociale), rappresentato da questo posto. Anche la sera prima, durante un giro by night, la città ha sciorinato il “meglio” di sé. Lungo lo Strip, nello sfavillio di miliardi di luci colorate, questo sconcertante parco divertimenti per bambinoni ignoranti, consente di sostare sotto la torre Eiffel, fare un giro in gondola (a motore) mentre il gondoliere gorgheggia le strofe del Padrino. Non contenti si può passeggiare per calli e campielli di gesso sotto cieli artificiali che vorrebbero rievocare quelli del Tiepolo, ma trasmettono solo un grottesco imbarazzo in chi ha visto l’originale. Una parziale eccezione è rappresentata dalla Sfera anzi semisfera, ultima arrivata delle meraviglie di qui: una calotta alta 110 metri, la cui superficie, coperta di LED, è in grado di disegnare ogni tipo di immagine. Al suo interno sorgerà un auditorium con 17000 posti, effetti speciali 4D e tutto ciò che serve per incantare il pubblico. Al misero costo finale di 2,3 miliardi di dollari! Un affarone, nell’insonne città del peccato. Città che trae l’energia (e l’acqua!) da un luogo non lontano e suggestivo.

La Hoover Dam e le sue immense turbine pompano acqua e corrente per venti milioni di persone in quattro stati. Rappresentando uno dei grandi sforzi del New Deal Rooseveltiano, quando grandi progetti furono messi in campo per reagire alla grande depressione del ’29. A farne le spese è stato il Colorado. Il grande fiume ha commesso l’errore di passare proprio da qui e ciò ha fatto sì che fosse sbarrato in più punti da enormi dighe che ne hanno imbrigliato per sempre il corso. Oggi la natura si sta prendendo una feroce rivincita attraverso perduranti siccità che hanno abbassato il livello degli invasi di trenta o quaranta metri, allontanando le rive di centinaia di metri dai numerosi imbarcaderi e villaggi.
Una volta superati i severissimi controlli di guardie armate (sul pullman) e metal detector all’ingresso, la sconsolante situazione delle acque risulta evidente. Ciononostante, il panorama è superbo con i bordi sbassati del lago sbiancati che contrastano con l’ocra delle rocce sovrastanti che si perdono nelle creste ondulate. Da una parte il deserto del Nevada, dall’altra quello dell’Arizona. In mezzo, a far da confine, una diga alta più di 200 metri con torri di presa e interni elegantissimi in stile razionale, figli di un’epoca d’oro dell’architettura moderna. Un caldo feroce e un filmato tronfio e autocelebrativo (e mai aggiornato) stile Istituto Luce sulla realizzazione dell’opera, sono lo scotto da pagare durante la visita, che una volta terminata fa sì che si volga la barra verso l’aeroporto. Non prima, però, di un ultimo stop al nucleo primigenio di Las Vegas. In realtà oramai un luogo molto più povero rispetto alle megalomanie dello strip, ma dove si incontrano casinò storici come il Golden Nuggett e un originale tunnel a led luminosi che ne costituisce il centro nevralgico: the Fremont Street Experience. Percorrerlo con 42° non è il massimo del comfort, ma è istruttivo per la presenza di parecchi homeless, strane tipe vestite (poco) da diavolesse, ambulanti molto freaks e modesti negozi di souvenir. Uno sguardo significativo sull’altra faccia della città.
Ma il tempo stringe. All’aeroporto arriviamo che già si rannuvola. Prima dell’imbarco viene giù un violento acquazzone. Las Vegas, come un vecchio gangster, fa capire che è meglio che ce ne andiamo. E noi così facciamo!

I video di Gimmy Tranquillo


“Vietnam – Popoli di Indocina” il viaggio del Controradio Club, da venerdì 21 aprile 2023 a lunedì 1° maggio 2023. Hanoi, HoChiMinh City/Saigon, due città a confronto.

Hanoi (capital city) e Ho Chi Minh City (Saigon) distano tra di loro circa 1500Km e rappresentano rispettivamente il centro politico ed economico del Vietnam. In questo viaggio le visiterete entrambe e scoprirete molte differenze interessanti.

Hanoi la capitale del Vietnam, ha una superficie di 3324 chilometri quadrati e una popolazione di circa 7 milioni. HoChiMinh/Saigon è più piccola in area con una superficie di circa 2090 chilometri quadrati ma ha una popolazione di 12 milioni di abitanti.

Ho Chi Minh City ha il più grande aeroporto del Vietnam, l’aeroporto internazionale Tan Son Nhat, mentre Hanoi ha il secondo aeroporto più grande del paese, l’aeroporto internazionale Hanoi Noi Bai. L’aeroporto di Ho Chi Minh offre più collegamenti aerei internazionali ed è il gateway più popolare per il paese.

Hanoi ha un aspetto più tradizionale con vecchi quartieri, mercati locali, vicoli stretti e edifici bassi. Alcune persone dicono che Hanoi offre una visione più autentica della vita e della cultura vietnamita. D’altra parte, Ho Chi Minh/Saigon è una città moderna con il grattacielo più alto del Vietnam, strade più nuove e più larghe, centri commerciali alla moda, bar sul tetto degli edifici e una varietà di ristoranti internazionali.

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale e l’economia, i migliori appartamenti nella zona della città vecchia di Ho Chi Minh costano circa 9.000 USD al metro quadrato, mentre ad Hanoi solo circa 5.000 USD. Nelle aree del quartiere degli affari, gli appartamenti costano circa 4.000 USD al metro quadrato a Ho Chi Minh e circa 3.000 USD al metro quadrato ad Hanoi. Si dice spesso che l’economia di Ho Chi Minh sia avanti rispetto a quella di Hanoi di circa 5-10 anni.

Ho Chi Minh è stata fortemente influenzata dagli Stati Uniti e dalla Francia durante la guerra del Vietnam e la colonizzazione francese. Ci sono molti stranieri provenienti da tutto il mondo che viaggiano e vivono qui sia nei distretti turistici che nelle aree residenziali. Ci sono 19 distretti a Ho Chi Minh e il nuovo 7° è internazionale e principalmente per stranieri. Ad Hanoi, vedrai per lo più solo stranieri nelle zone turistiche.

Situata nel nord del Vietnam e circondata da montagne, Hanoi è solitamente più fresca di Ho Chi Minh. A gennaio, per esempio, le minimi ad Hanoi sono di circa 14 ℃, mentre a Ho Chi Minh sono di circa 21 ℃.

Per queste differenze, per chi visita per la prima volta il Vietnam, sarebbe una buona idea visitare entrambe le città, per fare ciò questo nel viaggio del Controradio club sono inclusi due voli interni che non solo vi danno la possibilità di visitare entrambe le città, ma vi danno anche la possibilità di visitare Huế, antica capitale del Vietnam, dal 1802 al 1945, durante il regno dei 13 imperatori della dinastia Nguyễn, imperdibile con la sua Città imperiale costruita nel 1687.

INFO: http://www.tdsgruppi.com/iscrizione/nuovaiscrizione.aspx?IniziativaID=156

‘Vietnam, popoli di Indocina’, un viaggio riproposto dal Controradio Club

Firenze, dopo lo stop imposto dalla pandemia, il Controradio Club ripropone il secondo viaggio in Vietnam. Il programma del viaggio è pressoché invariato rispetto a quello del viaggio del 2019 che ha riscosso tantissimo successo tra i viaggiatori di allora.

Con questo viaggio abbiamo cercato di dare la possibilità ai viaggiatori di poter vedere sia il nord del paese, con la capitale Hanoi situata sulla riva destra del fiume Rosso, che il sud con Ho Chi Minh City, che molti chiamano ancora Saigon, che è la città più popolosa del Vietnam.

Naturalmente non poteva rimanere fuori dal tour la visita alla città di Huế, l’antica capitale del Vietnam, dal 1802 al 1945 durante il regno dei 13 imperatori della dinastia Nguyễn, imperdibile con la sua Città imperiale costruita nel 1687.

Ma Huế è situata nel Vietnam centrale sulle rive del ‘Fiume dei Profumi’ a pochi chilometri dalla sua foce, nel Mar Cinese Meridionale, e dista circa 700 chilometri da Hanoi e circa 1100 chilometri da Ho Chi Minh/Saigon, su un percorso lungo quindi 1700 chilometri, un itinerario un po’ difficile da coprire senza ‘correre’ negli 8 giorni di permanenza effettiva sul suolo vietnamita.

Quindi inclusi nel viaggio sono previsti due trasferimenti aerei interni, Hanoi/Huế e Huế/Ho Chi Minh City, che consentiranno ai viaggiatori di poter apprezzare tutto il Vietnam con i suoi cambi social, culturali e di paesaggi che si verificano dal nord al sud.

Ma a molti di noi il Vietnam ricorda una guerra brutale e devastante che ha segnato nel profondo le generazioni degli ultimi decenni del secolo scorso. Per quei molti di noi è impossibile visitare oggi questo paese senza ricordare le immagini, vere o dei film, di quegli anni di sofferenza e angoscia.

Il viaggio non mancherà di rinforzare la conoscenza di quel periodo, con la visita a Cu Chi, il parco nei pressi di Saigon dove sono stati conservati i tunnel scavati dalla popolazione vietnamita durante le guerre contro Francia e Stati Uniti e poi la visita al Museo della Guerra e naturalmente  una escursione in barca sul fiume Mekong il più importante del sud est asiatico.

Mail Vietnam è un paese vivo e pulsante, dove soprattutto le giovani generazioni hanno voluto dimenticare l’orrore di quella guerra e si sono caricate sulle spalle il loro paese nella lunga strada verso la modernità. Lungo questa strada ci sono i resti del passato storico, la natura bellissima che rinasce dopo la devastazione delle bombe, la solennità, a volte vanagloriosa, dei mausolei della vittoria contro il colonialismo e l’imperialismo, i monumenti del nuovo capitalismo rampante.

Un viaggio in compagnia di Gimmy Tranquillo.

Info ed iscrizioni:

Islanda, terra del ghiaccio e del fuoco, il diario di viaggio di Marina Capponi

Firenze, un paio di giorni dopo il rientro dall’Islanda dei viaggiatori del Controradio Club, mi arriva un secondo diario di viaggio, è dell’avvocato Marina Capponi, personaggio già noto sulle frequenze di Controradio per la sua partecipazione insieme a Daniela Morozzi a ‘Bread & Roses, storie straordinaria di ordinaria discriminazione’, una trasmissione che parlava di donne, violenza e discriminazione sui luoghi di lavoro, con ospiti ed esperti.

Con questa premessa era naturalmente scontato che il diario del viaggio di Marina sia stato scritto con particolare attenzione alla situazione dei diritti delle donne in Islanda, un motivo in più perché anche questo scritto merita, a parer mio un’attenta lettura. Qundi di seguito in versione integrale e con le foto scelte dalla stessa Marina, il suo diario di viaggio.
Gimmy Tranquillo

21 agosto.
Primo giorno nella terra del ghiaccio e del fuoco, con gli amici di Controradio Adventures. Qui in Islanda si va forte con la parità di genere: la premier, donna, ambientalista, madre e dichiaratamente per i diritti lgbt, l’aereo pilotato da una bravissima comandante, persino l’autista del pullman è donna!!! Medito il trasferimento….
Reykyavik è una cittadina deliziosa e multicolore, dominata dalla chiesa parrocchiale Hellgrimskirkja, in stile neogotico, ispirata al basalto vulcanico dei monti islandesi, che con le sue forme slanciate svetta nel cielo azzurro.
Ammiriamo Harpa, una luminosa sala concerti affacciata sull’oceano, un alveare di vetro scuro. Sul lungomare l’Inno al sole, una scultura metallica scintillante che richiama la forma stilizzata di un drakkar.
E poi le montagne ci appaiono davvero: il vulcano Snaeffeks ed il ghiacciaio Snaeffelsjokull, dal quale Verne fa partire i suoi personaggi per il “Viaggio al centro della Terra” e la montagna a forma di punta di freccia della serie Trono di Spade, la Kirkjufell, con le sue cascate.
Islanda

22 agosto.
Secondo giorno nella terra del ghiaccio e del fuoco. Le distanze mi sembrano smisurate….
Una deviazione per visitare la casa di torba coperta di un manto erboso del terribile vichingo Erik il Rosso, con una fedele ricostruzione della vita di questi possenti e temibili guerrieri, che hanno saccheggiato l’Europa, fino a spingersi nelle Americhe, probabilmente in tempi anteriori alla loro scoperta da parte di Colombo.
Incontriamo chiesette luterane molto fotogeniche e minuscoli cimiteri dalle croci bianche sull’erba verdissima durante il trasferimento ad Akureyri, la seconda città dell’Islanda, a 100 km dal circolo polare artico, ma con un microclima mite ed uno splendido Giardino Botanico. E con una tenera particolarità: la luce rossa dei semafori è a forma di cuore…
Islanda

23 agosto.
Terza lunghissima giornata islandese. Colazione al Gardino Botanico. Tutte donne le giardiniere: le più anziane insegnano, le giovani apprendono.
E poi partenza verso paesaggi marziani, con campi lavici (antichissimi e più recenti) a Dimmuborgir, con la cupa Kirkja (altra suggestiva ambientazione di Trono di Spade), il lago di Myvatn, il più grande del paese, la cascata degli Dei, Godafoss, dove il presidente del parlamento, nel 999, si favoleggia abbia gettato le statue degli antichi dei Odino, Thor e Freya, perché l’Islanda abbracciasse la religione cristiana.
E balene e delfini nella baia di Husavik cui rompere le scatole, che generosamente ci hanno gratificato con evoluzioni e spruzzi.
Il turismo, il domani della terra del ghiaccio e del fuoco. Speriamo che il delicato equilibrio ambientale resista all’impatto.

24 agosto.
Nella terra del ghiaccio e del fuoco le distanze e le manifestazioni dei fenomeni naturali sono impressionanti.
È La giornata di cascate spettacolari e fumarole. La cascata Sellfoss, nel canyon di Jokulsargljufur, la Dettifoss, detta la cascata dell’Acqua che Rovina, la più grande d’Europa, alta 44 metri e larga 100, con una portata d’acqua di 200 tonnellate al secondo.
E la zona geotermica di Hverarond, con le sue fumarole, i fanghi bollenti ed il caratteristico odore solforoso.
E poi l’attraversamento del cuore dell’Islanda, praticamente deserto. Non vediamo più neppure le sempre numerosissime pecore bianche e nere, oppure i bei cavalli islandesi, piccoli di taglia ma assai pregiati, con le loro cinque andature. E l’incontro con due teneri volpacchiotti artici è solo un ricordo.
Il nulla, solo lava fredda e licheni. Otto ore di pullman, condotto magistralmente dalla nostra autista Gulla, anche su sterrato.
Ed ora andiamo a sud, tra fiordi e ghiacciai.

25 agosto.
Oggi la terra del ghiaccio e del fuoco si è manifestata in tutto il suo splendore.
Nella laguna glaciale di Jokulsarlon gli iceberg si staccano dal ghiacciaio Vatnajokull,  il più grande d’Europa, rotolano e scorrono velocemente nel fiume Jokulsa, per poi gettarsi nell’Atlantico.
Una parte di questi blocchi si adagiano sulla sabbia vulcanica nera, come spettacolari diamanti.
Navighiamo attraverso la laguna di ghiaccio, che si è formata circa 80 anni fa, a bordo di un veicolo anfibio. Ammiriamo i maestosi iceberg: alcuni raccontano di eruzioni antiche e recenti, con strati di cenere vulcanica nera che si alternano a strati di ghiaccio turchese. Con il cambiamento climatico lo scioglimento del ghiacciaio sta pericolosamente accelerando di 500 metri l’anno.
Proseguiamo l’esplorazione di una delle 38 lingue del ghiacciaio Vatnajokull, la Skalafellsjokull, nell’omonimo parco naturalistico, fra lava solidificata, piante di mirtillo e rari, eroici fiori di montagna. Qui vicino si getta Svartifoss, la cascata che sgorga da colonne di basalto che sembrano scolpite dalla mano dell’uomo.
Attraversiamo Eldhraun, la più grande regione di lava del mondo, dirigendoci verso la spiaggia nera, Renisfjara, circondata da rocce di basalto a formazione a canna d’organo, dove nidificano i pulcinella di mare.
Ci incantiamo dinanzi ai faraglioni di Reynisdrangur: sono ancora le ambientazioni di Games of Thrones, ma non vediamo draghi svolazzanti, né tantomeno puffins, solo bianchi gabbiani.
La giornata finisce con un fiammeggiante tramonto arancio e porpora, sugli scogli di Dyrlohaey.
Un ecosistema potente eppure delicato, dove vulcani attivi come il temutissimo Katla e la mano dell’uomo, principale responsabile del riscaldamento globale, contribuiscono ad alterare un equilibrio millenario.

26 agosto.
Ultimo giorno islandese, prima del lungo viaggio di ritorno.
Cascate spettacolari, fra arcobaleni al cui termine si nascondono forzieri d’oro vichingo, coraggiose contadine ambientaliste, centinaia di gradini su cui arrampicarsi per godere di panorami mozzafiato, fra ghiacciai grandi come un terzo dell’Islanda, suddivisi in 38 lingue e vulcani silenti ma insidiosi, mimetizzati da strati di ghiaccio. E la deriva dei continenti, unico luogo al mondo dove la faglia fra la placca euroasiatica e quella nordamericana, altrove nascosta sul fondo dell’oceano, si manifesta in tutta la sua impressionante grandezza.
L’Islanda è stata avara di aurore boreali, che abbiamo inutilmente inseguito, ma generosa di tramonti, davvero straordinari.
Indimenticabile la Vikurkirkja, la deliziosa chiesa sul promontorio di Vik i Myrdal, che si racconta sia l’unico edificio sopravvissuto all’eruzione.
E poi innumerevoli cascate: la cascata di Skogafoss formata dal salto del fiume Skogaà, che nasce dal ghiacciaio Eyiafjallajokull. Il vulcano sottostante, nel 2010, con la sua spettacolare eruzione esplosiva ed effusiva e l’immensa nuvola nera di ceneri vulcaniche ha fermato il traffico aereo europeo per mesi.
Alla fine del bellissimo arcobaleno che la luce del sole genera attraversando la cortina d’acqua, si narra vi sia un forziere d’oro vichingo, che per ora nessuno è mai riuscito a recuperare… la maniglia ad anello con incisioni runiche si è strappata (lasciando a bocca asciutta il ragazzo che lo aveva trovato e legato con una corda) ed è conservata nel museo locale, dopo aver adornato per un certo tempo il portale della chiesa.
La cascata di Seljalandfoss, che nasce dallo stesso ghiacciaio e forma un laghetto circolare dove precipita, nascondendo una vasta cavità retrostante accessibile, dalla quale ammirare la scenografica caduta dell’acqua.
E Gullfoss, la cascata dorata, così chiamata non per il suo splendore, bensì per i guadagni cui aspirava una società inglese all’inizio del XX secolo, con la costruzione di una diga che avrebbe alimentato una centrale idroelettrica. Una coraggiosa contadina, Sigridur Tomasdottir, proprietaria del terreno, trascinò in giudizio la società, minacciando di gettarsi nella cascata. In realtà perse la causa, ma indusse la società a desistere. Sigridur, la patrona degli ambientalisti islandesi!
E dopo tanta acqua e ghiaccio, ecco il fuoco. Il grandioso Geysir, con i suoi getti d’acqua bollente alti fino a 60 metri. Ogni 4/8 minuti il Geysir si manifesta in tutta la sua potenza, per la gioia dei turisti, formando una bolla d’acqua turchese, a 120 gradi, che dai 23 metri sottostanti si proietta verso l’alto in una torre di acqua e vapore.
A chiusura del Cerchio d’Oro, il Parco nazionale del Pingvellir, presso la maestosa faglia che separa l’Europa dall’America del Nord, dove nel 930, fra onde di lava solidificata a cordoni e la muraglia di roccia, nasceva il primo parlamento democratico del mondo di cui si abbia memoria, l’Alpingi.
Le pareti della faglia tettonica fungevano da altoparlante per gli oratori del Parlamento, che declamavano al popolo i testi delle leggi, recitati e diffusi oralmente.
Ivi si amministrava la giustizia ed il boia vichingo somministrava la pena di morte: la decapitazione per gli uomini, uno straziante annegamento per le donne, cucite in un sacco zavorrato di sassi e gettate nel fiume.
Oggi la bandiera dell’Islanda indica il luogo preciso, detto la Roccia della Legge.
E poi il ritorno verso Reykjavik ed una passeggiata in centro, ammirando le caratteristiche case ed i loro intriganti murales.
La Natura è una donna smisurata, bellissima e terribile, come scriveva il Leopardi nelle Operette Morali. Al povero islandese che la interroga sulla sorte degli uomini su questo pianeta, ne afferma l’assoluta irrilevanza e la sua totale noncuranza, non solo per la loro felicità o infelicità, ma anche per la loro eventuale estinzione. E qui nella terra del ghiaccio e del fuoco la Natura è signora e padrona. Ogni tanto, imprevedibilmente, un vulcano si sveglia e spiana tutto. Noi turisti tentiamo di rovinare questi luoghi bellissimi e remoti, che gli islandesi si stanno sforzando di preservare con molto impegno. Ed il riscaldamento globale incombe, ovunque, non si scappa, neanche qui, nella remota isola vulcanica dalla quale Verne fece partire il viaggio per il centro della Terra.
A conclusione di questo splendido viaggio, una leggenda norrena molto diffusa nel Nord Europa, nella sua versione islandese. Le selkie, le donne foca. Si narra che un pescatore islandese nelle grotte di Renysfjara, la spiaggia nera, trovò una pelle di foca che nascose in un baule chiuso a chiave. Ed una fanciulla bellissima, nuda, in lacrime, che diventò sua moglie e madre dei suoi sette figli.
Ma la donna, che tristemente ogni giorno guardava il mare, un bel giorno ritrovò la sua pelle e la indossò, tornando per sempre al suo elemento ed alla libertà. Da allora il pescatore non la vide mai più, ma la sua rete fu sempre piena di pesci. Ed una foca con gli occhi lucidi accompagnò i figli lungo la loro strada, lanciando pesciolini colorati e conchiglie. Metafora della vicinanza del femminile alla natura? Della continua ricerca della propria identità? Delle costrizioni sociali e della cultura patriarcale che limitano la libertà delle donne? Rinvio, per le amiche femministe, alla lettura in chiave di genere della leggenda della donna foca che ne dà Clarissa Pinkola Estés, in “Donne che corrono con i lupi”.
Nel lasciare con rimpianto la terra del ghiaccio e del fuoco per tornare alla quotidianità, il pensiero si volge a questo straordinario paese, antico e giovane allo stesso tempo, con un cuore bollente e gelato, autosufficiente per l’energia geotermica, con una vera, quotidiana parità di genere nel lavoro ed in politica.
Islanda, mon amour…

27 agosto, il viaggio ed il rientro a casa
Rientrata in città ed al lavoro, tentando inutilmente di trasformare lo scontroso gatto di casa in sontuosa volpe artica, la triste fetta biscottata della colazione in saporita aringa, gli opachi tramonti fiorentini nei fiammeggianti cieli islandesi, cerco di vincere la nostalgia con il ricordo. Prima di tutto delle persone: i nostri tour leaders, Gimmy Tranquillo con la sua vulcanica energia, Sandra Marcelletti, romana di nascita e finlandese di adozione, con la sua simpatia e competenza, la nostra energica ed infaticabile autista Gulla, che ci ha accompagnato per la bellezza di 2.064 chilometri! E poi il gruppo, composto da persone piacevolissime, alcune che già avevano condiviso con me e mio marito altre avventure con Controradio Firenze, altre che abbiamo conosciuto in Islanda, ma è come se ci si conoscesse da anni.
E poi gli animali, i fiori, i cieli, le chiesette luterane, i crocevia, i vulcani, gli iceberg, i panorami mozzafiato, gli islandesi, pragmatici e gentili……
La terra del ghiaccio e del fuoco, assolutamente indimenticabile.

Islanda, concluso felicemente il viaggio del Controradio Club

Firenze, sono rientrati alla base gli entusiasti viaggiatori del Controradio Club, dopo un indimenticabile viaggio in Islanda.

Mentre mi accingevo a scrivere questo articolo mi è arrivato un diario del viaggio in Islanda, scritto da Paolo Marini, che a parer mio è riuscito a mettere in bianco e nero su carta, le emozioni, gli scenari ed i colori del viaggio, senza indugio quindi lo condivido con voi in versione integrale, alternando ai suoi scritti giornalieri il programma ed i miei video delle varie tappe. Vi consiglio di leggerlo attentamente, grazie Paolo.
Gimmy Tranquillo

Sabato 20 agosto 2022: Firenze > Bologna > Keflavik > Reykjavik
Partenza con il volo di linea Air France delle 18h00 per Parigi. Arrivo previsto alle 19h45 e coincidenza con il volo IcelandAir delle 22h25 diretto a Reykjavik. Arrivo previsto alle 23h45 dopo 3h20’ di volo. Incontro con la guida e trasferimento in hotel a Reykjavik.
Lýðveldið Ísland
Volo IcelandAir Parigi Reykjavik FI541. Manca poco all’arrivo. L’orrendo, sconclusionato, dispersivo, pretenzioso Charles de Gaulle è già un ricordo. L’aereo è una chicca. Lo gestisce un equipaggio di sole donne, compresa una giovane e biondissima pilota. Non è completo. Il posto accanto al mio è vuoto e posso allungare le gambe. Sul monitor davanti a me scorrono i dati di volo. Mi soffermo su quelli in islandese. Mi affascina questa lingua antica, piena di strani segni, dalla pronuncia gutturale, ma armoniosa. È il primo assaggio di viaggio, preludio di un pasto che si preannuncia lauto. Schiaccio la testa all’oblò come fanno i bambini. Sono quasi le due di notte italiane, ma qui si va indietro di due. Sotto di me, lasciate le coste scozzesi, il mare del Nord ha i plumbei colori della notte, appena rischiarati dal quarto di una luna bassa. All’orizzonte il nero è squarciato da un chiarore orizzontale, fatto di strisce rosa e poi azzurre e blu scure. Si dice che fu un navigante greco, tale Pitea, il primo a visitare l’Islanda. Chissà se vide anche lui questi colori incantati di aurora glaciale. Chissà se conosceva quei versi di Omero dove la chiama “dalle dita rosate”. Comincio a avere sonno, ma non mollo. Sto finalmente entrando in trip da viaggio. L’aereo mi entusiasma, non ero più abituato. Mi ero scordato il rumore dei reattori, il tintinnio dei carrelli del cibo (in genere orribile), la coda al check-in, la noia dei controlli. Mi piace tutto. Soprattutto perché si va. Non importa dove. Ma si va. Perché, come diceva Bruce Chatwin, l’uomo è fatto per stare in movimento. E questi anni sono stato fermo troppo a lungo. Prima o poi doveva succedere. Partire, intendo. Anzi, ri-partire. E allora lasciamoci cullare in attesa dell’atterraggio. Ma non subito…restiamo in aria ancora un po’.


Domenica 21 agosto 2022: Keflavik > Reykjavik > Snaefellsnes
Breve tour panoramico della capitale islandese. Partenza per Snaefellsnes, definita spesso come una Islanda in miniatura: in pochi chilometri si trovano ghiacciai, vulcani, campi di lava, crateri, villaggi di pescatori, piscine geotermali e spiagge nere. Qui si trovano la montagna di Kirkjufell, più volte utilizzata come set cinematografico, la suggestiva spiaggia di Djúplalónssandur, le scogliere di basalto di Londrangar. e le formazioni rocciose di Arnarstapi.


Lame di luce
Come luccica Reykjavik sotto il sole! È una piccola città, sobria, dalla bella architettura fatta di moderni edifici multipiano con vaste vetrate open space aperte sulla baia, alternate a case più basse, graziose e spesso dipinte a colori vivaci. Ordinata e con poco traffico, ha un aspetto quieto e accattivante, quasi schivo come i suoi biondi e diafani abitanti. Due terzi degli islandesi, che in tutto sono trecentomila, stanno qui. Altri diciottomila a Akureyri nel nord. La visita è breve. Non c’è molto da vedere. Ad aver tempo sarebbe piacevole uno struscio per le graziose stradine del centro. Centro che è dominato dall’Hallgrìmskirkja, la bizzarra cattedrale di cemento armato che si ispira alle colonne di basalto vulcanico che si vedono da tante parti in Islanda. La cattedrale non sarà un capolavoro, ma oggi ha un’alleata formidabile che la rende bella: la luce nordica, che ne accende e risalta le ardite nervature verticali, in contrasto con lo spoglio interno di luterana severità. Ma non c’è tempo bisogna iniziare a percorrere la strada costiera, la mitica Hringvegur, Ring Road per gli Inglesi, 1335 km più deviazioni varie da fare per intero. Alla ricerca dei pochi umani che vivono ai suoi bordi. Nonché di un milione e mezzo di pecore (oltre a cavalli e mucche). Il pullman è guidato da una ragazza di nome Gulla. Avrà una quarantina d’anni, bionda, piuttosto in carne. Parla inglese. Non sorride mai. Piglia, da sola, le valige di trenta persone e le caccia nella pancia del pullman. Senza battere ciglio. Credo che con una così i nostri bagagli siano al sicuro. Inoltre, si rivelerà un autista eccellente. Si parte. La geometrica eleganza di Reykjavik cede rapidamente il passo al caos geologico. La luce artica illumina ed esalta un paesaggio di monti che paiono tagliati col laser, con crinali aguzzi come rasoi, addolciti da un rivestimento di muschio verde scuro. Praticamente inesistenti gli alberi, sterminati nei secoli passati soprattutto per farne carbone e ora faticosamente ripiantati in qualche porzione di pianura. Ma non lì! I vasti pianori sono un susseguirsi di pietraie laviche sconnesse, spesso impraticabili e ricoperte pressoché interamente da spessi strati di muschi e licheni. Il colpo d’occhio è formidabile. Ogni tanto pseudocrateri vulcanici interrompono la sinfonia delle colate. Laddove ci sono campi e pascoli si incontrano le pecore. Piccole, dal pelo lungo, scorrazzano a piccoli gruppi per tutta l’Islanda, apparentemente libere. Non si vedono pastori né recinti, né ovili. Eppure, da qualche parte dovranno sostare. Se non sono pecore allora son cavalli. Piccoli e tranquilli, curiosamente sogliono riposare stando completamente distesi in terra. Compare il mare. Calmo. Spiagge nere di piccoli ciottoli di basalto si susseguono. Uccelli bianchi accoccolati, risaltano nella luce vivida di mezzogiorno. Si arriva alla penisola di Snaefells dominata dallo Snaefellsjoküll, un monte-ghiacciaio incendiato dal sole. Maledico di essere controluce per le foto. Il monte in realtà è un vulcano (spento?) la cui notorietà è merito di Jules Verne che qui ambientò la discesa iniziale nel “Viaggio al centro della terra”. Qui la natura esprime una potenza indescrivibile. Si raggiunge l’impronunciabile spiaggia di Djúpalónssandur: cosparsa dei resti arrugginiti di un vascello inglese naufragato nel ’48, che risaltano sulla sabbia nera. Tutt’intorno squarci di lava forata, ispida, sconvolta. Piccole lagune. Tappeti di licheni su pareti verticali di basalto. Il verde di erba e erica nana qua e là. Il sole ci aiuta e dopo essersi andato a coprire un po’, decide di riesplodere generoso, esaltando con preziosi chiaroscuri quell’ oceano di pietre in contrasto con il blu scuro dell’oceano mare. La giornata termina ad Arnarstapi, sede di un hotel. Quattro case. Un porto microscopico in cui è quasi incastonato un peschereccio dalla cui pancia escono casse piene di merluzzi appena catturati. Alle spalle lo Snaefelljoküll esala gli ultimi riverberi di luce. Il cielo si vela. Si alza un vento gelido. A un tratto, quasi uno scatto d’orgoglio prima di tramontare, ricompare un sole mai stanco e sotto i miei occhi esplode lo splendore di un tratto di costa fatto di alte scogliere, archi di pietra, uccelli marini e del silenzio dell’imminente notte. Mi aggiro, faccio foto per poi imbattermi nel monumento a un Troll che mi guarda col suo bizzarro nasone di pietra. Lo si credeva una creatura bizzarra e dispettosa. Si dice anche che non sopportasse il sole. Sorrido al pensiero che per oggi l’ha dovuto sopportare.


Lunedì 22 agosto 2022: Snaefellsnes > Akureyri
Partenza per il nord dell’isola verso Akureyri. Lungo il percorso è prevista una sosta alla Casa-Museo di Erik il Rosso, forse il più famoso tra tutti i vichinghi. Arrivo nel tardo pomeriggio ad Akureyri, la seconda città più grande dell’Islanda, e breve giro orientativo a piedi.

Ode al lichene e altre oziose considerazioni in una tappa di passaggio
Gulla, la nostra autista, sta finendo la sua colazione a base di yogurt e Coca-Cola. Curva sul tavolo, assomiglia a Ettore, il bulldog di Tom & Jerry. Vedendoci arrivare, scatta come una molla ad aprire i portelloni del pullman. Acchiappa le valige come fossero gingilli, sistemandole a partire dalle più grosse via via scemando. Non tollera aiuti. Fatta la funzione spranga tutto, sale e accende. Saliamo in ordine. Non si parte fintantoché ogni passeggero ha allacciato la cintura di sicurezza. Il troll di pietra mi guarda e sogghigna: oggi è nuvolo e lui non nasconde la sua soddisfazione. Me l’aveva promesso ieri sera. Ciononostante, il paesaggio continua ad essere bellissimo. La strada corre su un piano via via più ampio. Non ci sono i campi lavici, ma prati e pascoli. A sinistra la montagna espone strati di pietra scura orizzontali. Ogni tanto una fenditura profonda taglia a perpendicolo le rocce. Sul fondo l’acqua forma sovente ardite cascatelle. La costa è più lontana. Il cielo davvero non promette niente di buono. Una pioggia finissima spolvera per un po’ il parabrezza dell’impassibile Gulla. L’asfalto bagnato si fa d’argento, esaltando i numerosi rattoppi colpa di inverni troppo lunghi. A un tratto si devia per raggiungere la Búðakirkja, la chiesa nera di Búðir. Una curiosa costruzione a guardia di un pittoresco cimitero con le tombe affondate nel muschio. Siamo davanti all’oceano. La spiaggia è bellissima, ampia e scura. Gabbiani e altri uccelli svolazzano su un mare calmo del colore del ferro. Si riparte. A Borgarnes si ripiglia la hringvegur. Direzione nord verso Akureyri, seconda città d’Islanda malgrado abbia gli abitanti di Borgo S. Lorenzo. Oggi tappone di spostamento. Il paesaggio cambia continuamente. Adesso è meno aspro. Le montagne proseguono nel presentarci il loro campionario di rocce, muschi, fenditure e cascate, ma sono più lontane. Un piano vasto e regolare tale da sembrare alluvionale, si amplia sempre di più. Compaiono campi coltivati, la maggior parte a foraggio. Il panorama è costellato qua e là da fattorie. Molto isolate le une dalle altre. Talvolta un fabbricato unico, altrimenti raggruppate in piccoli agglomerati di 3 o 4 case. Ogni tanto si nota la presenza di una chiesetta. Nei campi pecore a gruppetti brucano tranquille. In lontananza trattori gialli come enormi locuste falciano il fieno stipandolo in grandi sacchi su un rimorchio. Il risultato sono rotoballe che, impacchettate in film di plastica bianca o nera punteggiano a migliaia il paesaggio come pedine di una dama gigante. Quando batte il sole luccicano come pezzi di marmo. Si vedono molte chiazze alberate, frutto di piantumazioni recenti, volte ad attenuare la drammatica, secolare deforestazione che ha portato quasi a zero i boschi del paese. Spesso accanto alle fattorie si vedono ciuffi di alberi ormai adulti. Più lontano, giovani abeti, anche minuscoli, guadagnano terreni da secoli perduti. Ai bordi della strada, strane piante erbacee dal portamento elevato e un’infiorescenza circolare richiamano l’attenzione. Sono chiamate palme di Tromsö ed erano un alimento base nella dieta dei Vichinghi. A un tratto il paesaggio muta bruscamente. L’Islanda, pur mantenendo sempre la natura vulcanica, ha mutevoli aspetti. Quasi come il tempo. Ora la valle si restringe e ricompaiono i campi di lava sui quali campeggiano rigogliosi i licheni. Licheni…Che ne sarebbe dell’Islanda senza di loro? Un accordo in natura tra un’alga o un cianobatterio e un fungo dà vita a un meccanismo formidabile e redditizio. Crescono dappertutto, non hanno bisogno quasi di niente e permettono poi lo sviluppo di altre piante. E sono pure commestibili. Per gli animali e anche per l’uomo. Infatti, nella locale gastronomia tradizionale esistono zuppe di latte e lichene. Oggi sono ingrediente raffinato degli chef della nuova cucina scandinava e anche islandese. È certo che ce n’è bisogno in un ricettario ancestrale che comporta gourmandises quali l’hakarl (pezzi di squalo artico fatto fermentare sei mesi sottoterra e poi appeso a seccare al vento del nord) oppure lo svið (testa di pecora bollita). Mentre faccio queste considerazioni il pullman devia nuovamente, inerpicandosi in una valle spoglia che presto si fa canyon con gole laterali magnifiche e chiazze di neve molto vicine. La successiva visita a una casa Vichinga poco interessa se non per l’accuratezza della ricostruzione e la simpatia della guida-guardiana. I chilometri si fanno sentire e si ha voglia di arrivare. Anche Gulla pare stanca di tutto questo andirivieni. Si riparte per non fermarsi se non per vedere una chiesetta fatta di torba e legno e col tetto di erba. Un sole improvviso e accecante ci illumina l’ultima parte del tragitto fino a Akureyri. Avrei preferito risparmiarlo per domani.


Martedì 23 agosto 2022: Akureyri > Dettifoss > Myvatn
Partenza per le visite nella zona di Myvatn, tra cui gli pseudo crateri, il campo lavico di Dimmuborgir e la zona geotermica di Hverarond. Continuazione verso Husavik e imbarco per l’escursione di avvistamento delle balene.
Le tre acque
Che città deliziosa che è Akureyri, capitale del nord dell’Islanda! Adagiata al fondo dell’omonimo fiordo ha spazi vasti e ben tenuti. Belle case signorili nel pendio digradante verso il mare. Un aspetto che la fa somigliare a certe città termali della Mitteleuropa, ma con un tratto gentile e meno austero. Magnifico il piccolo orto botanico, fra il centro e l’ospedale, curato con meticoloso orgoglio. In città la luce rossa dei semafori è a forma di cuore, secondo un’idea geniale dell’amministrazione, scaturita all’indomani della crisi economica del 2008. Si voleva dare un messaggio di fiducia alla gente. Il risultato è stata una botta di notorietà che prosegue tuttora. Ci sono locali gradevoli, mai sguaiati. In uno ceniamo. La giovane cameriera è bionda e sottile, i capelli legati e delle incredibili unghie finte triangolari, lunghe e aguzze, che le rendono difficile tenere in mano il taccuino per le ordinazioni. Altre ragazze lavorano nel locale. Pelle chiara chiara. Bionde e più in carne. Sono tutte molto gentili. Mangiare in Islanda costa quasi il doppio che in Italia. Carissimi gli alcolici. Tranne la birra sono venduti dallo stato. Per controllare chi ne consuma troppo. Più è alta la gradazione più alto è il prezzo. La birra analcolica costa poco. Al mattino si fa colazione nella bellissima caffetteria dell’orto botanico, tutta legno e vetro con vista sul prato dove un’addetta taglia l’erba con una motofalciatrice gialla. Un grande tavolo col piano di granito nero accoglie le vivande. Al bancone una giovane alta dai capelli scuri. Un volto dai tratti morbidi. Occhi grandi. Sembra Biancaneve. Quella disneyana, intendo. Lasciare Akureyri dispiace, ma il tempo è tiranno. Bisogna raggiungere il porto di Húsavík, sull’oceano. Si va a caccia di balene. Húsavík è un paese di pescatori brillantemente convertito, almeno d’estate, al turismo. Duemila abitanti, case colorate, una chiesetta di legno, qualche negozio, magazzini. Attorno una bella corona di montagne innevate. All’imbarcadero un giovane vichingo, altissimo e gentile, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle, distribuisce pesanti cerate imbottite. Mi squadra e soppesa e poi opta per una enorme. In tutto siamo una quarantina. Tutti vestiti in nero col sopra arancione. Riempiamo tutta la barca che non è grande. Visti dall’alto dobbiamo sembrare un grande vassoio di gamberoni giganti (e cotti). Il mare è calmo, percorso da un’onda lunga. C’è parecchio vento, freddo. Meno male che siamo vestiti così! Passiamo accanto a un isolotto fatto a tronco di cono, ricoperto di muschio. Gabbiani a coppie compiono evoluzioni ardite attorno a noi. Più in là si scorgono gruppi svolazzanti di pulcinella di mare. In acqua galleggiano cormorani che si inabissano al passaggio del battello. Quest’ultimo piega verso nord-ovest in un punto così riparato che il vento quasi cessa e non fa più freddo. La baia è magnifica. L’acqua appena increspata sembra addensarsi, mandando riflessi opalescenti. Sullo sfondo catene montuose innevate sono attraversate, a metà della loro altezza, da sottili nuvole basse. La luce cambia di intensità ogni poco. Quello che manca sono le balene. Il pilota timona in qua e in là, in cerca di qualcosa, ma oramai è tempo di invertire la rotta e rientrare. Come d’incanto, però, il mare s’increspa in un punto a babordo, due coppie di delfini prendono a girare e saltare tra scene di entusiasmo. Come se non bastasse, a un tratto, nel braccio di mare calmo, uno spruzzo rivela: balene! Un paio di balenottere minori e poi almeno un altro paio di grossi cetacei dalla testona grande (iperodonti boreali, mi dicono). Non sono vicini, ma si vedono benissimo. La gita a mare ha avuto successo! Che soddisfazione! Che animali superbi. Peccato che qui ancora non abbiano smesso del tutto di cacciarli. Si rientra felici, ma in ritardo sulla tabella di marcia. Si parte subito. Dal mare al lago. Myvatn il nome. Ci si arriva per l’ormai consueta bella strada. Ma il posto sorprende comunque. Un vastissimo ripiano accoglie uno specchio d’acqua frastagliato, cosparso di isolotti erbosi bassi e da rocce laviche che escono dall’acqua a guisa di mostri marini. L’attività dei vulcani è stata così alta che colate di lava, rotolando sull’acqua hanno creato esplosioni e conseguenti pseudocrateri che danno al paesaggio un aspetto surreale. Non a caso qualcosa di simile c’è anche su Marte. Se descrivere il paesaggio del Myvatn è complesso, impossibile è descrivere l’adiacente fenomeno del Dimmuborgir. Da bambino mi piaceva tanto fare gli esperimenti in cucina (segno premonitore di futura passione!). Uno era fare il caramello. Io provavo e lui regolarmente bruciava. Non mi restava che versarlo in una catinella d’acqua fredda dove il contatto generava nuvole di vapore e il caramello solidificato assumeva le forme più bizzarre. Dimmuborgir è un gigantesco caramello di lava, solidificato nelle forme più disparate. Un sentiero lo percorre tra colonne, lapilli immobilizzati, creste, grotte, mostri di pietra, archi, anelli, portali…ignoravo, confesso, l’esistenza di un simile luogo, che mi dicono essere stato un importante set cinematografico. Abbandoniamo il lago, impegnato a disperdersi lungo l’altopiano in un torrente impetuoso che serpeggia tra massi e gole in un affascinante tragitto verso il mare. S’è fatto tardi, un nuvolone basso lascia filtrare i raggi obliqui del sole, illuminando una valle in fondo. Il pullman compie l’ultimo sforzo fermandosi alle Godafoss, le cascate degli dèi, la terza acqua di oggi. Sono così belle, ma è così tardi che rinuncio a descriverle, affidandomi alle immagini e al loro eloquente potere. È il momento di riposare. Domani lunga tappa: 496 chilometri. Si va a sud verso il grande ghiacciaio. Il Vatnajokull ci attende.


Mercoledì 24 agosto 2022: Myvatn > Hofn
Proseguimento per il Sud-est dell’Islanda con varie soste lungo il tragitto che costeggia i fiordi orientali. Arrivo nel tardo pomeriggio ad Höfn.
Potente e fragile
L’albergo diffuso in cui sto finendo di fare la doccia, era una fattoria o forse lo è ancora. Almeno d’inverno. Siamo a sud del lago Myvatn, oltre le cascate Godafoss. Fuori fa freddo. Il proprietario e il suo staff famigliare stanno approntando la cena. Mi affretto a finire. L’acqua sa di zolfo. Come quasi dappertutto in Islanda. Esce così, calda e puzzolente, dalle viscere della terra a riscaldare le case, le serre e le vasche di terme e piscine, tinozze e quant’altro e che quindi si trovano ovunque. Anche qui in fattoria ce ne sono un paio. Poco più che pozze, chiuse perché ormai si è fatto tardi. Perciò un gatto ne approfitta per sistemarsi al calduccio sul coperchio. Lo raggiunge un coniglio col pelo arruffato che tutti carezzano. Mentre mi avvio a tavola ho sempre in mente l’armoniosa, elegante grazia potente delle cascate di ieri, ma più ancora mi sforzo di capire qual è la sensazione dominante che mi induce la visita di questi luoghi. Non mi è ancora chiara, ma sono certo che la troverò. La cena scaccia la voglia di ragionare. C’è parecchia confusione. Nel ristorante ci sono solo italiani! Ne abbiamo incontrati moltissimi in questi giorni. Non so se sia un bene o un male. O meglio, lo so, ma non lo dico. Partenza al mattino successivo. Si va a sud. Tempo decisamente brutto. Nuvole bassissime. Poca visibilità. Rapidamente si passa da un paesaggio rurale fatto di campi coltivati a foraggio a un panorama brullo e disadorno preludio all’inferno di Námafjall. Qui, in un’ansa alle pendici di una collina, un susseguirsi ininterrotto di fumi, fumarole, soffioni, sorgenti bolle di fango grigio, rivoli d’acqua bollente si un offre alla vista. In lontananza il fumo concentrato di una centrale geotermica. Il terreno ha mille colori e varia dal nero del basalto al giallo dello zolfo fino al bianco del borace e al rosso del ferro. Torniamo al bus con gli scarponi lerci. Gulla ci attende al varco, imponendoci l’uso di un curioso pulitore a più spazzole prima di risalire a bordo. La strada prosegue fino a un piazzale piuttosto affollato. Lì, in mezzo a un ripiano di lastroni di basalto, un sentiero porta alle cascate Dettifoss. Il rombo coglie d’improvviso. La vista, assai ravvicinata, della spaventosa massa d’acqua è emozionante. È un tuono primordiale. Risalendo la terrazza naturale che la delimita, si comprende che il fiume, prima di gettarsi scorra in un letto con pareti di roccia verticali. L’acqua è grigia del colore dell’argilla. Duecento metri prima, il fiume affronta un’altra cascata, Settifoss, meno bella, ma solo perché Dettifoss è impareggiabile. Si riparte. Da lì in poi il panorama diviene lunare: uno spettacolare deserto nero di basalto con tanto di dune, si alterna a sporadiche chiazze di muschi e licheni. Una deviazione su sterrato porta, dopo pochi chilometri, fino al villaggio di Modrudalur, un nome buono per il signore degli anelli, dove faremo sosta-pranzo.Villaggio…Qui si fa per dire: case coi tetti ricoperti di torba, un distributore di benzina anch’esso col tetto in torba, una caffetteria nel nulla, una chiesetta e…due volpi artiche, ancora con la livrea estiva, accoccolate sotto un ponticello. Il tempo peggiora, si riparte. Pioggia e nebbia. Per evitare una lunghissima strada che costeggia alcuni fiordi, peraltro con questo tempo invisibili, è previsto tagliare dal passo di Öxi. Il tratto si rivela sterrato, fradicio di pioggia, ostico e anche trafficato. Auto, mezzi pesanti, camper mettono a dura prova Gulla (e un po’ anche noi). Lei, però, nonostante tutto non perde il suo nordico aplomb. Che pilota che è questa donna! Alla fine, si riprende la hringvedur e nel mentre il paesaggio cambia di nuovo. Adesso il mare è a sinistra, ma fra lui e la strada si estendono terreni paludosi, lingue di sabbia e lagune. A un tratto la nebbia scompare. Il sole esalta i dettagli. Le montagne a destra prendono colore e luccicano della pioggia. Si scorgono fattorie e altri rari insediamenti umani. Nelle lagune nuotano molte coppie di cigni in attesa di migrare a sud. Tra le nuvole basse compare, coperta, una delle trentotto lingue del ghiacciaio Vatnajokull. La giornata è finita. Oramai arrivato penso ancora a definire il sentimento dominante. No, non è la potenza della natura, né l’indubbia bellezza. È la fragilità! La constatazione di quanto tanto splendore sia minacciato. Un lichene cresce di pochi millimetri all’anno, il Vatnajokull ogni anno si ritira di trecento metri. Il ghiacciaio di Giulio Verne sparirà entro 20 o trent’anni. I paesaggi, le brughiere, le distese di basalto, se calpestati o comunque troppo frequentati, si alterano irrimediabilmente. Questo paese è tanto bello, quanto delicato anche se lo nasconde abilmente dietro una natura così dominante. Per questo più lo visito e più mi viene voglia di tornarci. Nel frattempo, il vento è calato. S’è alzato un nebbione che non promette niente di buono per domani. Meglio che non ci pensi, meglio dormire.


Giovedì 25 agosto 2022: Hofn > Jokulsarlon > Skaftafell > Svartifoss > Vik
Visita alla laguna glaciale di Jökulsárlón, con una navigazione su mezzo anfibio. Si prosegue poi con la visita del parco nazionale di Skaftafell, situato ai piedi del ghiacciaio Vatnajökull. Attraversamento in bus della più grande regione di lava del mondo, Eldhraun. Prima di arrivare in hotel, sosta alla baia di Reynisfjall, dove si trovano gli scogli di Dyrholaey, sui quali nidificano le pulcinelle di mare, e visita della spiaggia nera di Reynisfjara.
Nebbie e diamanti
Parla italiano la cameriera della Gerdi Guesthouse di Höfn, microscopico paesino davanti a una zampa del Vatnajökull. Non è di qui. Viene dalla Grecia e l’italiano lo ha imparato durante un breve soggiorno a Firenze. È gentile e racconta di come tantissimi siano gli stranieri che vengono a lavorare come stagionali. Guadagnano e sono trattati bene. Per cena, dopo una zuppa di verdura, ci porta un arrosto di agnello che piuttosto, vista la dimensione, è pecora giovane. Ed è pure buono, così come in genere buono è il mangiare in Islanda. Niente cibi estremi: squalo marcito, testa di pecora bollita, lingua di merluzzo, testicoli di montone o quant’altro oramai più leggenda che sostanza. Non è invece leggenda la nebbia che rapidamente sale dal mare e che, dopo un illusorio sole, copre rapidamente uomini e cose, lasciandoci perplessi e delusi, mentre terminiamo l’ottimo breakfast. Breakfast in cui fa il suo debutto un patè di pecora e un’aringa in agrodolce. Ottimi entrambi. Gulla apre la pancia del pullman, sistema le valige e partiamo. Preoccupati, scrutiamo il cielo in cerca di un segno di conforto. Niente. Pare di stare nel cotone idrofilo. Partiamo. La Breiðamerkursandur, meglio conosciuta come spiaggia dei diamanti, è poco distante. Nella piazzola di sosta non si vede a dieci metri. Arrivare sulla spiaggia è questione di minuti. Si sente il rumore della risacca delle onde sulla spiaggia di piccoli ciottoli scuri, ma il mare non si scorge. D’un tratto, luminoso come un’astronave, surreale come un dipinto di Max Ernst, si materializza la carcassa di un grande cristallo di ghiaccio. Adagiato sulla sabbia nera, traforato dal disgelo, trasparente e purissimo appare come una visione. Appena l’occhio s’abitua, si scorgono tanti altri frammenti di ghiaccio. Alcuni ancora in mare, trasmettono il loro chiarore malgrado la nebbia. Ce ne sono di trasparenti, opachi con venature, di varie gradazioni del celeste. Sulla spiaggia, come sul palcoscenico di una performance, ne giacciono moltissimi di varie forme e dimensioni. Alcuni, piccoli e prossimi alla totale scomparsa, sembrano quei piccoli diamanti che nei diademi circondano la grande pietra principale. La nebbia alfine ci ha fatto un regalo, rendendo preziose, quasi incastonate, queste effimere, bellissime forme. C’è molta gente, intenta a guardare, fotografare e fotografarsi. Mentre mi sposto all’estremità della spiaggia per vedere l’impetuoso canale, proveniente dal Vatnajökull, che rifornisce di iceberg questo luogo incantato, sento degli schiamazzi. È una comitiva di spagnoli che fa le foto tra i cristalli. Un paio di loro sta calpestando i più piccoli. Un altro ne prende uno in mano per farsi un selfie. Infine, noto un terzetto che stende la sciarpa di una squadra di calcio su un pezzo di ghiaccio e si fa una foto tutti assieme, sciarpa compresa. Reprimendo istinti omicidi, faccio le ultime foto prima di tornare al pullman diafano nella nebbia che non molla. Arrivato alla laguna glaciale, constato con sgomento che la visibilità è davvero scarsa. C’è molta gente. Girello in attesa di fare l’escursione col battello. Giganteschi blocchi di ghiaccio sono ben visibili. Hanno forme le più disparate cui la nebbia conferisce un’aura misteriosa. Il battello è un anfibio. Un barcone con chiglia gialla, quattro ruote dal battistrada consumato, un’elica sotto la pancia e un tubo di scarico verticale alto alto. Visto così pare più un mezzo adatto a un cartoon di Pippo, Pluto e Topolino al polo Nord. Invece imbarca gente. Appena salito a bordo vengo impacchettato con un giubbotto di salvataggio rosso acceso e troppo stretto. Sembro un tacchino. Una ragazza ci dà istruzioni in inglese su come comportarsi, dove siamo ecc ecc. Ha un viso poco islandese. Infatti, è colombiana. Anche lei stagionale. Il buffo mezzo caracolla ridicolo sul terreno fintantoché entra in acqua. Qui riacquista dignità. Nel frattempo, scorrono, magnifici, gli icebergs più diversi. La nebbia aggiunge suggestione a un luogo che peraltro non ne ha bisogno, bello com’è. Però se penso che la laguna sia nata solo novant’anni fa e che da allora la velocità di fusione e arretramento del ghiacciaio si è terribilmente incrementata, non riesco a vederlo se non con una profonda vena di inquietudine, che non mi abbandona anche quando vengo via, malgrado l’allegra comparsa di una foca che ci guarda curiosa per poi presto sparire. Cerco di consolarmi con un ottimo sandwich coi gamberoni. Il pullman ci reclama e faccio appena in tempo a finire che già sto sopra. Skaftafell si chiama la nuova meta: è un parco. Si cammina fino al margine di una lingua glaciale. La nebbia è sparita. In compenso a tratti pioviggina, ma la camminata è piacevole. Giunti al piede del ghiacciaio, constato l’imponenza del torrente di fusione e mi piglia un senso di smarrimento. Poco dopo arrivano i soliti spagnoli, stranamente silenziosi forse per il lungo tratto a piedi. Non rinunciano, però, a sciorinare la solita sciarpa della squadra del cuore per un selfie col ghiacciaio di sfondo. Non c’è la posso fare! A questo punto torno indietro e chiedo asilo alla caffetteria del parco, consolandomi con un cheesecake ai frutti di bosco. Ripartendo, noto che il tempo migliora ulteriormente. Attraversiamo luoghi ancora una volta diversi. Anfiteatri di monti foderati di muschio. Fattorie lontane, incredibilmente isolate. Una straordinaria serie di cascate. Gruppi di rocce modellate dall’acqua in forme bizzarre. E soprattutto Eldoran, il più grande campo di lava del mondo. Un luogo da hobbit. Una sorta di mare agitato in pietra rivestito da uno spesso strato di licheni. Si estende, mai uguale, per chilometri quasi fino alla spiaggia nera di Reynisfjara, lascito di un vulcano cattivo, il Katla, attualmente silente, ma non spento e nascosto da una calotta di ghiaccio, il Mýrdalsjökull. Il vulcano ha anche lasciato sulla spiaggia dei magnifici colonnati di basalto esagonale in forma di caverna in cui una folla davvero esagerata si ripara, fa selfie, si arrampica. Ciononostante, il posto è magnifico anche grazie al sole scintillante che oramai la fa da padrone. Indugio ancora un po’, la vacanza è agli sgoccioli. Me la devo centellinare.


Venerdì 26 agosto 2022: Vik > Geysir > Thingvellir > Keflavik > Reykjavik
Partenza per Reykjavik con soste fotografiche alla cascata di Skogafoss ed a quella di Seljalandsfoss. Proseguimento verso l’area del “Circolo d’Oro” dove si visiteranno la cascata di Gullfoss, che si getta con un doppio salto in un canyon e la zona di Geysir che ha dato il nome a questo fenomeno di vulcanesimo secondario, con sosta presso Stokkur, il geyser più importante. Ultima tappa, il parco nazionale di Thingveillir, che si trova in un punto di grande interesse geologico, ovvero lungo la faglia che separa la zolla americana da quella europea. Questo parco è stato dichiarato Patrimonio Unesco perché fu la sede del parlamento islandese, il più antico del mondo.
Il cerchio finisce a Reykjavik
Mattina dell’ultimo giorno d’Islanda, dal promontorio Dyrholaey, dove si trova l’omonimo hotel, la vista è stupenda. Non c’è una nuvola e lo sguardo spazia per tutta la Reynisfjara, la spiaggia nera. Maledizione, non doveva finire così, con questo sole divino! Come si fa a lasciare questo posto meraviglioso con una luce così? Oggi doveva piovere, esserci la nebbia, un freddo da rincitrullire, un vento malvagio. Oggi dovevo trovare il bagno allagato, fare una colazione rancida, litigare con quattro islandesi affinché considerassi un sollievo andarmene via. Invece ho il nervoso perché vorrei restare che tante sono le cose da fare, da conoscere. Oltre ai luoghi di natura, mi incuriosisce quella degli islandesi. Chi è questo piccolo popolo di grandi uomini e donne? Gente che è passata da cacciare e pescare e vivere in case dal tetto di torba fino ai primi del Novecento, a essere un moderno popolo di operatori in vari campi di cui l’ultimo, il turismo, sta avendo uno sviluppo clamoroso. Un popolo che parla la lingua delle saghe nordiche, che è in grado di leggere senza intermediazione. Come se noi fossimo in grado di leggere il volgare del ‘200 senza che nessuno ce lo spiegasse. Un popolo sì di pescatori e allevatori, ma anche di accaniti lettori e financo scrittori se è vero com’è vero che si calcola che, nell’arco di una vita, un islandese su sette scriverà un libro. Tali considerazioni non sono mie, quanto scaturiscono dall’ascoltare Sandra, sagace e arguta, impareggiabile guida che con competenza e grande cultura nonché humor romano-lappone, ha accompagnato lo svolgersi di questa settimana, contribuendo a farmi venire il mal d’Islanda. E io gliene sono infinitamente grato mentre Gulla ci fa allacciare per l’ennesima volta le cinture. Oggi si va per cascate. Si comincia con Skogafoss, piena di armonica grazia e che ci accoglie con un arcobaleno completo. La strada, tanto per cambiare, è bellissima, dominata dai ghiacciai e adagiata su un vasto ripiano di antiche eruzioni. Lo percorrono molti fiumi e torrenti. Ogni tanto attraversiamo una vasta fiumara di sabbia nera. Siamo oramai nel regno dell’Eyjafjallajökull, il malefico vulcano che nel 2010 eruttò catastroficamente, causando una nuvola che bloccò per giorni il traffico aereo. Furono infatti cancellati 100.000 voli. L’Eyjafjallajökull ha generato due figlie: Seljalandsfoss e Gullfoss. La prima è una potente colonna che diffonde una corona di spruzzi a 360°, visto che è possibile passarci dietro, grazie a un ripido e scivoloso sentiero. Sul quale, per inciso, ho ritrovato il gruppo di spagnoli, tormentatori seriali, intenti stavolta a rallentare la salita a tutti, fermandosi ogni poco fra chiacchiere e titubanze. Quanto a Gullfoss, c’è poco da dire: è una delle più spettacolari del mondo. Mi rendo conto di essere inquieto. È così ogni ultimo giorno di viaggio. La visita al parco dei geysir è doverosa e interessante, ma a parte la bolla blu che precede l’eruzione d’acqua del principale, lo Strokkur, non la si può definire memorabile. Emozionante invece il parco di Þingvellir ovvero la faglia dove si incontrano, anzi si separano, lo zoccolo americano e quello euroasiatico. Accanto ad essa i resti dell’Alþingi, il più antico parlamento del mondo, fondato nel 930. A questo proposito, mi sovviene il ricordo che in nessun paese come in Islanda è possibile analizzare il Dna di generazioni e generazioni. Lontananza e isolamento in zone impervie hanno fatto dell’isola una fortezza genetica: le contaminazioni di razze estranee nei secoli sono state pochissime, così che gli islandesi di oggi hanno molto in comune con i vichinghi loro avi. Anche se tale condizione andrà a termine poiché da tempo è in atto un ampio fenomeno migratorio. Sebbene il parco di Þingvellir sia molto bello, è giunto il momento di rientrare a Reykjavik. Il sole seguita a provocarmi coi suoi raggi sfacciati. In cielo zero nuvole. Spira un vento molto forte. Anche a Reykjavik sole e vento la fanno da padroni. In cerca dell’ultimo ristorante, due passi in città non guastano. È venerdì, c’è molta animazione. Belle case illuminate, noto bei negozi e qualche galleria d’arte aperta. Da molti locali giunge il rumore di musica dal vivo. I bar e i ristoranti sono pieni. Passano, rombando, due o tre macchinoni americani anni ’50. Dev’essere una passione diffusa da queste parti. Sì, certo, qui in città. Chissà che faranno la sera nelle innumerevoli fattorie incontrate negli oltre 2000 km pilotati da Gulla? E i pescatori dei fiordi del nord? Mastico gli ultimi bocconi di merluzzo fritto. Mastico amaro perché mi tocca andare via. Ma non finisce qui. Almeno spero.

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