Tutte le sfaccettature dell’animo umano in Uno zio Vanja, al Teatro Era

Al Teatro Era di Pontedera va in scena, sabato 10 marzo alle ore 21 e domenica 11 marzo alle ore 17.30, il malinconico spettacolo Uno zio Vanja di Čechov nell’adattamento di Letizia Russo. Con Milena Mancini, Lorenzo Gioielli, Nina Torresi, Andrea Caimmi, Alessandra Costanzo, Nina Raia e la regia di Vinicio Marchioni.

Rileggendo il testo, Marchioni ha trovato che la vecchia piantagione piena di debiti al centro del dramma ricordasse la crisi del nostro Paese, la nostra mancanza di fiducia e speranza. In questa nuova versione di Zio Vanja, i protagonisti ereditano un teatro di provincia, in uno dei luoghi fortemente colpiti dagli ultimi terremoti. Quelle macerie sono una metafora della nostra situazione: non per parlarne in modo negativo, ma per cercare la marcia giusta per ripartire.

In fondo è a questo che Čechov ci invita: capire quanto sia meschina l’esistenza borghese, così priva di slanci e di entusiasmi, così mediocre e vuota, per inventarsene una diversa. E uscire dalla gabbia che ci siamo fabbricati per diventare uomini migliori. Le scene sono di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Milena Mancini e Concetta Iannelli, le musiche di Pino Marino, le luci di Marco Palmieri. Una produzione Khora.teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

i vive, semplicemente (o ci si avvicina alla morte giorno dopo giorno), e nel vivere si soffre, in un grigiore permanente e alienante. “Volevo solo dire alla gente – affermò Čechov – in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa”. È il 26 ottobre del 1899 quando va in scena per la prima volta al Teatro d’arte di Mosca Zio Vanja, oggi considerato                                                                                   uno dei drammi più importanti dello scrittore russo.

Il suo stile, modellato sul tragicomico del quotidiano, restituisce con fascino irripetibile e struggente le complesse sfaccettature dell’esistenza umana. Lo spettacolo nell’adattamento di Letizia Russo (da un’idea di Vinicio Marchioni e Milena Mancini) con il titolo Uno zio Vanja, fa perno su precise note di contemporaneità della scrittura čechoviana, per esaltarne la straordinaria attualità creativa, nell’assoluto rispetto delle dinamiche tra i personaggi e dei dialoghi del testo classico.

Questa riedizione di Zio Vanja vuole essere uno specchio in cui possiamo vedere riflessa la nostra incapacità (o non volontà) di essere felici. Può essere una visione sgradevole, ma gli specchi hanno un lato salutare: se quello che appare non ci piace, possiamo tentare di cambiarlo. Vinicio Marchioni dirige il lavoro e interpreta zio Vanja, con Francesco Montanari (Astrov), Milena Mancini (Elena), Lorenzo Gioielli (Serebrijakov), Nina Torresi (Sonja), Andrea Caimmi (Telegin), Alessandra Costanzo (Marija), Nina Raia (Marina). Le scene sono di Marta Crisolini Malatesta, i costumi di Milena Mancini e Concetta Iannelli, le musiche di Pino Marino, le luci di Marco Palmieri. Una produzione Khora.teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana.

Protagonista dei quattro atti originali è Ivan Petrovic Voiniskij, zio Vanja appunto, che per anni ha amministrato con scrupolo e abnegazione la tenuta della nipote Sonja versandone i redditi al cognato, il professor Serebrjakov, vedovo di sua sorella e padre di Sonja. Unica amicizia nella grigia esistenza di Vanja e di Sonja è quella del medico Astrov, amato senza speranza da Sonja. Per il resto sono tutti devoti al professore, che credono un genio. Serebrjakov si stabilisce con i due, insieme alla seconda moglie, Elena. Le illusioni sono presto distrutte: alla rivelazione che l’illustre professore è solo un mediocre sfacciatamente ingrato, zio Vanja sembra ribellarsi: in un momento d’ira arriva a sparargli, senza colpirlo. Nemmeno questo gesto estrema modifica il destino di Vanja e di Sonja, che riprendono la loro vita rassegnata e dimessa, sempre inviando le rendite della tenuta al professore tornato in città con la moglie.

Note di Regia: “I temi universali della famiglia, dell’arte, dell’amore, dell’ambizione e del fallimento, inseriti in una proprietà ereditata dai protagonisti della vicenda di Zio Vanja, sono il centro della messa in scena. Cosa resta delle nostre ambizioni con il passare della vita? E se fossimo in Italia oggi, anziché nella Russia di fine 800? La nostra analisi del capolavoro čechoviano parte da queste due domande, che aprono squarci di riflessioni profondissime, attraverso quello sguardo insieme compassionevole, cinico e ironico proprio di Anton Čechov, finalizzato a mettere in scena gli uomini per quello che sono, non per come dovrebbero essere.

 

Lavia al Teatro Era, in prima nazionale ne’ Il Padre

La fondazione Teatro della Toscana presenta, in prima nazionale al Teatro Era di Pontedera sabato 13 e domenica 14 gennaio e alla Pergola di Firenze da martedì 16 a domenica 21 gennaio, ‘Il Padre’, diretto e interpretato da Gabriele Lavia.

Dopo Brecht e Pirandello, Gabriele Lavia si confronta per la terza volta nella sua carriera con Il padre di Strindberg. Sul palco al fianco di Lavia, Federica Di Martino. La casa, la famiglia, la resa dei conti, motivi simbolici per il drammaturgo svedese, vengono qui portati a un confronto ultimativo, che si impone con la lucidità dell’allucinazione.

“L’azione di quest’opera – afferma Gabriele Lavia – è tutta interiore e stretta nella morsa tragica dell’unità di tempo, luogo e azione nella quale deve essere compiuto il ‘delitto perfetto’: l’omicidio psichico. Il nostro spettacolo precipita l’azione dentro una vertigine di velluto rosso sangue dove il quieto salotto familiare comincia ad ‘affondare’ nel naufragio di ogni certezza. È il naufragio del mondo e della storia. Ma forse la vita non è altro che un naufragio”.

Il Capitano di cavalleria Adolf viene a scontrarsi con la moglie Laura sull’educazione da impartire alla figlia Berta. La consorte non esita a instillare nell’animo dell’uomo un dubbio atroce: la sua stessa paternità. Il lungo calvario mentale di Adolf lo sprofonda in un’angoscia devastante, fino a farlo precipitare, prosegue Lavia, “nell’abisso della perdita di ogni ‘certezza ontologica’ dello statuto virile della paternità”.

“Scritto con un’ascia, non con la penna”. Così August Strindberg definisce Il padre composto in una manciata di mesi nel 1887 che della tragedia, nel senso più autentico del termine, rivendica tutti i paradigmi, mettendo a nudo i nodi irrisolti di un rapporto coniugale inaridito in regole che hanno reso moglie e marito estranei l’una all’altro, rivali, nemici.

“L’intreccio del Padre – spiega Gabriele Lavia – è semplicissimo. Un marito sospetta che la moglie lo abbia tradito e che la figlia sia figlia di un altro. Marito, moglie, figlia e…l’altro. Un intreccio, diciamolo pure, banale, che nelle mani di Strindberg diventa un ‘abisso’. O, meglio, il precipitare nell’abisso della perdita di ogni ‘certezza ontologica’ dello statuto virile della paternità e l’avvento della condizione di ‘incertezza dell’essere’ dell’uomo che, dunque, deve fare i conti con la cultura, la storia e addirittura, poiché Strindberg scrive una tragedia classica, con il mito”.

Gabriele Lavia interpreta il marito, il Capitano di cavalleria Adolf, Federica Di Martino è la moglie Laura. Il cast si compone poi di Giusi Merli (La Balia), Gianni De Lellis (Il Pastore), Michele Demaria (Il Dottor Östermark), Anna Chiara Colombo (Berta, la figlia), e dei giovani attori diplomati alla Scuola ‘Orazio Costa’ del Teatro della Toscana, Ghennadi Gidari (Nöjd), Luca Pedron (L’Attendente). Le scene sono di Alessandro Camera, i costumi di Andrea Viotti, le musiche di Giordano Corapi, le luci di Michelangelo Vitullo.

“Siamo alla fine dell’Ottocento e, quindi, ci si muove – prosegue Lavia – in un ambito nel quale, ancora, non è possibile scientificamente provare con certezza la ‘paternità certa’ di un uomo. Solo la madre è certa. Il padre non è certo. Così il Capitano. Il Padre, cioè l’uomo del comando, privato di ogni certezza è condannato a soccombere di fronte alla donna che è più forte, perché ha la ‘certezza dell’essere’. La certezza dell’essere contro l’incertezza del non essere. E se l’essere uomo diventa ‘non essere’, diventa proprio come Amleto, follia”.

La vicenda personale alla quale più o meno precisamente può venir ricondotta l’opera, è in sostanza il matrimonio di Strindberg con Siri von Essen, da lui conosciuta quando è la baronessa Wrangel. Divorziatasi dal marito, Siri sposa Strindberg nel 1877 e gli dà quattro figli, dei quali tre hanno molta parte nella vita di lui. Ma il matrimonio attira e respinge insieme lo scrittore, e con tale veemenza, che egli dopo la prima avrà altre due mogli, ma resterà sempre inquieto e infelice. Il periodo in cui scrive Il padre è quello che precede il divorzio da Siri, sancito nel 1891, ma è pure il momento di sue intense e abbastanza sistematiche letture di psicologia, storia, politica, scienze naturali, e in cui si occupa anche di pittura, fotografia e ipnotismo.

Conclude Gabriele Lavia: “È proprio nel precipitare nella follia che il Capitano Adolf riesce ad affondare il suo ‘caso banale’ di sospetto di ‘corna’ nell’abisso della storia dell’uomo, fino al mito di Ercole (salvatore del mondo) e di Onfale (la grande de-virilizzatrice) che si scambiano i vestiti. Cosicché l’uomo diventa donna e la donna diventa uomo. Onfale con l’inganno s’impossessò della clava di Ercole e della sua pelle di leone, simboli della virilità e della forza. Ed Ercole, ingannato, indossò le vesti della bellissima Onfale, simboli della fragilità e dell’obbedienza. Il nostro Capitano, privato del potere economico e interdetto, impazzito e stretto nel vestito dei ‘pazzi’ (la camicia di forza), indosserà simbolicamente lo scialle profumato della moglie in una vertiginosa proiezione del mito”.

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