Plastica, quanto ne ricicliamo veramente? Secondo Greenpeace, negli USA si arriva al 5%

Secondo un rapporto di Greenpeace sullo stato del riciclaggio della plastica negli Stati Uniti, la stragrande maggioranza della plastica che le persone usano, e poi raccolgono negli appositi bidoni per il riciclaggio, finirebbe poi in discarica o peggio.

Il rapporto di Greenpeace, cita dati pubblicati il maggio scorso, da cui risulterebbe che la quantità di materiali plastici effettivamente trasformati in nuovi prodotti, è scesa a nuovi minimi arrivando a circa il 5% di quella raccolta. Non solo ma che si prevede che questo numero percentuale diminuirà ulteriormente man mano che aumenterà la produzione della plastica.

Greenpeace ha scoperto che nessuna plastica, nemmeno quelle delle bottiglie delle bevande, uno degli articoli più numerosi che vengono gettati nei bidoni del riciclaggio, arriva ad una quantità tale da essere definita “riciclabile”, per gli standard stabiliti dalla ‘Ellen MacArthur Foundation New Plastic Economy Initiative’, secondo cui la plastica deve avere un tasso di riciclaggio di almeno il 30% per raggiungere tale definizione, ed è anche vero che nessun tipo di plastica è mai stato riciclato e riutilizzato vicino a quella percentuale.

“Viene prodotta sempre più plastica ma una percentuale sempre più piccola viene riciclata”, afferma Lisa Ramsden, attivista senior per la plastica per Greenpeace USA. “La crisi peggiora sempre di più e, senza cambiamenti drastici, continuerà a peggiorare poiché l’industria prevede di triplicare la produzione di plastica entro il 2050”.

Gli esperti in gestione di rifiuti affermano che il problema del riciclo della plastica è il costo elevato che bisogna pagare per raccoglierla smistarla. Esistono infatti migliaia di diversi tipi di plastica e nessuno di loro può essere fuso insieme agli altri, inoltre la plastica si degrada anche dopo uno o due riciclaggi, per di più Greenpeace ha anche scoperto che più la plastica viene riutilizzata, più diventa tossica.

La plastica nuova, invece, è economica e facile da produrre, il risultato è che i rifiuti di plastica hanno poco mercato, questa è però una realtà una che l’opinione pubblica fatica proprio ad accettare.

Trent Carpenter, il direttore generale della ‘Southern Oregon Sanitation’, dice che quando hanno informato i clienti, un paio di anni fa, del fatto che non avrebbero più potuto più portare rifiuti di plastica diversi dalle bottiglie delle bevande e contenitori tipo quelli per il latte e per il detersivo, le persone rimasero addirittura sconvolte, perché erano abituate a mettere nei contenitori del riciclo tutti i tipi di plastica: contenitori delle fragole, buste, vasetti di yogurt, eccetera.

“Abbiamo dovuto rieducare le persone sul fatto che una grande quantità di quel materiale finisce in una discarica”, ha detto Carpenter. “Non andrà in un impianto di riciclaggio per essere riciclato, ma una volta in nell’impianto di riciclaggio verrà gettato in discarica da qualche altra parte, perché con quel materiale non si può fare nulla”.

Il messaggio che non tutti i materiali plastici possano essere riciclati è stato difficile da accettare per il pubblico, essendoci così tanti contenitori diversi che fino ad allora tutti avevano messo nei contenitori per il riciclaggio.

Carpenter afferma di voler usare trasparenza nei confronti dei propri clienti e dire loro la verità, a differenza di alcune aziende che continuano a dire ai clienti che oggetti di plastica, come buste e contenitori vari, vengano trasformati in nuovi prodotti.

Greenpeace ha scoperto che ci sono un paio di strutture che stanno cercando di riciclare contenitori di plastica, chiamati “numero 5”, a causa del marchio che è stampato su di essi, ma che i numeri sono bassi. Nonostante il 52% degli impianti di riciclaggio negli Stati Uniti accetti questo tipo di plastica, il rapporto ha rilevato che meno del 5% di questo materiale, venga effettivamente riusato, mentre il resto finisce in una discarica.

Allo stesso modo, la National Association for PET Container Resources, un gruppo commerciale del settore, ha scoperto nel 2017 che solo il 21% delle bottiglie di plastica raccolte per il riciclaggio vengono poi trasformate in nuovi prodotti.

Un rapporto investigativo di NPR (National Public Radio) ha rilevato nel 2020 che i funzionari del dell’industria petrolifera e del gas hanno fuorviato il pubblico sulla riciclabilità della plastica, i loro stessi rapporti infatti mostravano di sapere già negli anni ’70 e ’80 che la plastica non poteva essere riciclata in modo abbastanza economico.

Dopo la pubblicazione del rapporto di Greenpeace, Joshua Baca, vicepresidente per l’American Chemistry Council, un gruppo di lobby del settore della plastica, ha inviato un’e-mail a NPR definendo le opinioni di Greenpeace “fuorvianti, estranee e fuorvianti”.

Baca ha affermato che l’industria ritiene di essere “al culmine di una rivoluzione della circolarità” quando si tratta di riciclare la plastica “aumentando lo smistamento, il riciclaggio avanzato e nuove partnership che consentono di rifare la plastica usata ancora e ancora”.

Consapevoli che la risoluzione del problema sarebbe solo quella di usarne meno, ambientalisti e legislatori stanno ora spingendo per una legislazione che limiti proprio la produzione della plastica, vietando la plastica monouso, ma i progetti di legge che vanno in questa direzione, e che hanno portato a tassi di riciclaggio di successo in stati come l’Oregon e il Michigan, devono affrontare, per ovvi motivi, una forte resistenza da parte dei lobbisti dell’industria della plastica e del petrolio.

Dopo anni passati ad abbracciare il riciclaggio della plastica, molti gruppi ambientalisti americani, sperano ora che il pubblico veda finalmente la plastica per quello che è – spazzatura – e che le persone si chiedano se c’è qualcos’altro che potrebbero utilizzare al suo posto.

‘Cascatelli’, ora gli americani ci insegnano a fare la pasta

Per Dan Pashman, conduttore del podcast alimentare The Sporkful, c’è in giro, c’è solo pasta mediocre. C’è molto spazio quindi per migliorare, ed propone un nuovo formato da lui inventato chiamato ‘Cascatelli’.

“Gli spaghetti sono solo un tubo – dice in un’intervista a Morning Edition, un notiziario radiofonico, prodotto e distribuito dalla radio pubblica americana NPR – Dopo pochi morsi, sono sempre uguali, e la forma rotonda non è eccezionale per trattenere la salsa”. Ed ecco la soluzione: i suoi Cascatelli che italiano dice, a parte il piccolo problema di genere, sta per “piccole cascate”.

Pashman, per arrivare alla sua forma ideale di pasta, dice di aver acquistato, mangiato, studiato e catalogato, tutti i tipi di pasta esistenti: “Ho riunito caratteristiche di forme diverse che mi piacevano particolarmente, e che non erano mai state messe insieme i questo modo prima d’ora”.

Il risultato Cascatelli, si tratta di una pasta corta, con una striscia piatta e con delle balze che sporgono con un angolo di 90 gradi. Le balze danno la consistenza della forma, dice Pashman: “Questo elemento ad angolo retto è davvero fondamentale, ed è ciò che penso renda questa forma diversa – descrive – Ci sono pochissimi formati di pasta che hanno angoli retti. Fornisce resistenza al morso a tutti gli angoli. Crea una sorta di trave a I, e questo rende il boccone molto soddisfacente”.

Pashman ha documentato il suo sforzo triennale per inventare questo nuovo formato di pasta, ha poi fatto fabbricare uno stampo da esperti del settore che ha infine venduto: “Se mi chiedeste cosa mi ha tenuto sveglio di più negli ultimi tre anni, se i miei figli o questo formato di pasta, la risposta sarebbe difficile da dare”.

Dan Pashman, da quando ha lanciato lo show, The Sporkful, nel 2010, ha usato l’umorismo e l’umanità per avvicinarsi al cibo da molti punti di vista, arrivando ad usare scienza, storia, identità, cultura, ed economia, solo per stabilire come si debba spalmare in modo ottimale gli ingredienti di un PB&J, che per i non anglofoni è l’acronimo del ‘Peanut Butter & Jelly’, il più semplice ma anche uno dei più famosi ‘piatti’ americani.

Gimmy Tranquillo

NPR: COVID-19 può attaccare anche il cervello e causare danni duraturi

In un articolo pubblicato sul suo sito web il 5 gennaio, la National Public Radio (NPR), un’organizzazione indipendente no-profit comprendente oltre 900 stazioni radio statunitensi, fondata da un atto del Congresso degli Stati Uniti d’America, cerca di dare una spiegazione, mettendo insieme alcuni report scientifici pubblicati su riviste come the journal ‘Alzheimer’s & Dementia’ e ‘The New England Journal of Medicine’, ad alcuni sintomi denunciati da pazienti post covid, di solito associabili a danni cerebrali.

“All’inizio della pandemia, le persone con COVID-19 hanno iniziato a segnalare degli strani sintomi: la perdita dell’olfatto e del gusto – inizia l’articolo così l’articolo di NPR – Il motivo non era la congestione, ma il fatto che in qualche modo, il virus SARS-CoV-2 sembrava colpire i nervi che trasportano le informazioni dal naso al cervello”.

“Avevamo paura che la SARS CoV-2 potesse invadere il cervello”, afferma il dottor Gabriel De Erausquin, ricercatore presso il Glenn Biggs Institute per l’Alzheimer e le malattie neurodegenerative presso l’Università del Texas Health Science Center di San Antonio, intervistato da NPR.

Molti pazienti ricoverati per COVID-19 vengono dimessi con sintomi come quelli associati a una lesione cerebrale. Questi includono “Lacune di memoria che comprometteno la loro capacità di funzionare – dice De Erausquin – e lamentano problemi con l’organizzazione dei loro compiti, e ciò comporta intenferenze con attività come per esempio essere in grado di preparare un pasto”.

Ma COVID-19 sembra anche produrre molti altri sintomi correlati al cervello che vanno dalle convulsioni alla psicosi, riporta un team di ricercatori nel numero del 5 gennaio della rivista ‘Alzheimer’s & Dementia’. Il team, che includeva De Erausquin, afferma che essere gravemente affetto da COVID-19, può persino aumentare il rischio in una persona di sviluppare la malattia di Alzheimer.

C’è da dire che nella maggior parte dei pazienti affetti dalla malattia, la funzione cerebrale migliora man mano che si riprendono. Ma non tutti, alcuni infatti rischiano di affrontare una disabilità a lungo termine, dice De Erausquin.

“Anche se la percentuale di questi casi non è molto alta, è probabile che il numero assoluto di persone che subiranno queste conseguenze sia alto, perché sono tante le persone vengono infettate”.

Gli scienziati stanno ancora cercando di capire i molti modi in cui COVID-19 può danneggiare il cervello: è stato chiaro sin dall’inizio della pandemia che l’infezione può portare a coaguli di sangue che possono causare un ictus. Alcuni pazienti subiscono anche danni cerebrali quando i loro polmoni non sono più in grado di fornire abbastanza ossigeno.

Per comprendere altri meccanismi meno ovvi, tuttavia, gli scienziati hanno avuto bisogno di tessuto cerebrale di pazienti con COVID-19 deceduti e all’inizio della pandemia non  riuscivano ad ottenere quei tessuti, afferma il dottor Avindra Nath del National Institute of Neurological Disorders and Stroke, ma ora, afferma Nath, che faceva parte di un team che ha studiato il tessuto cerebrale di 19 pazienti COVID-19, abbiamo visto prove diffuse di infiammazione e danni, ha detto riferendosi ad uno studio pubblicato sul numero del 30 dicembre del ‘New England Journal of Medicine‘.

“Quello che abbiamo scoperto è che alcuni vasi sanguigni molto piccoli nel cervello perdevano sangue”, dice Nath. “La diffusione di queste perdite non era uniforme, si verificavano in un piccolo vaso sanguigno qui e un piccolo vaso sanguigno là”.

“Queste piccole ferite assomigliavano a quelle di una serie di piccoli ictus verificatisi in molte aree diverse del cervello – dice Nath – La scoperta potrebbe spiegare perché i pazienti COVID-19 hanno una così vasta gamma di sintomi correlati al cervello – spiega poi Nath – inclusi alcuni relativi ad aree cerebrali che controllano funzioni come la frequenza cardiaca, la respirazione e la pressione sanguigna”.

“Si lamentano del battito cardiaco accelerato – aggiunge, o che – quando si alzano in piedi hanno le vertigini. Oppure possono avere problemi urinari”. Altri ancora riferiscono di sentire una stanchezza estrema, che può anche essere causata da una lesione cerebrale.

Inoltre, l’infiammazione e la perdita di sangue dai vasi sanguigni associati a tutti questi sintomi possono rendere il cervello di una persona più vulnerabile a un altro tipo di danno: “Sappiamo che queste perdite sono importanti nella malattia di Alzheimer e li vediamo giocare un ruolo chiave nel COVID-19 –  afferma Heather Snyder, vicepresidente delle operazioni mediche e scientifiche presso l’Alzheimer’s Association – E dobbiamo porci la domanda ora di cosa ciò potrebbe significare in età avanzata”.

Quindi associazioni e i ricercatori di oltre 30 paesi hanno formato un consorzio per studiare gli effetti a lungo termine di COVID-19 sul cervello. Lo sforzo coinvolgerà persone che sono state ricoverate in ospedale o che stanno già partecipando a studi di ricerca internazionali su COVID-19.

I risultati di questa ricerca – conclude l’articolo di NPR –  dovrebbero aiutare a rispondere ad alcune importanti domande su ciò che accade ai pazienti COVID-19 dopo un’infezione, dice Snyder. I ricercatori valuteranno il “comportamento dei pazienti, la loro memoria, la loro funzione generale” a intervalli di sei mesi.

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