Disco della settimana: Sleeper “The Modern Age”

Paladini del brit-pop, gli SLEEPER presentano il loro primo album in 21 anni, “The Modern Age”, in uscita per la loro Gorsky Records. Dallo scioglimento della band, nel 1998, Louise Wener si è rivelata scrittrice di successo; il batterista Andy Maclure e il chitarrista John Stewart apprezzati insegnanti di studi musicali.

La formazione odierna della band vede la collaborazione del bassista dei Prodigy Kieron Pepper. Nonostante in precedenza avessero smentito più volte possibili reunion, dopo un nuovo “rodaggio” live, la band ha passato l’estate del 2018 a registrare “The Modern Age” con il loro produttore di lunga data Stephen Street. La band è tornata con un sound più contemporaneo, ma la formula resta la stessa, melodie guitar-pop accattivanti e incalzanti. Nell’album si affrontano temi che vanno dalla maternità ai social media, dalle sconfitte personali alle relazioni umane. Il ritorno discografico era stato anticipato dal singolo “Paradise Waiting” .

La prima reazione della critica italiana è di Pinbal Wizard: “La ‘nostalgia’ è una cosa simpatica. Le persone la cercano, ognuno di noi, chi più chi meno, nel suo intimo spera che tornino i tempi in cui, si pensava, che le cose andassero meglio. Non è una questione temporale; non c’entra se quello che ‘ci manca’ è successo l’altro ieri o trent’anni fa, dentro di noi c’è il bisogno di rivivere quei giorni. La nostalgia è come un abbraccio fraterno che ti fa sentire bene, ti crea calore, ti dà senso di pace. E’ proprio questa la sensazione che si prova ascoltando The Modern Age, il nuovo album degli Sleeper. Un abbraccio amichevole e sincero lungo dieci canzoni dal carattere decisamente nineties ma con un sound che potrebbe rispettare i canoni musicali del 2019. All’album manca qualcosa per essere grande, tuttavia il verme del suo tradizionalismo entra dentro il nostro orecchio e scava un solco che va fino al cervello. E’ proprio dentro a questo canale che passa quella musica che ci ricorda quanto erano belli i giorni in cui il pop chitarristico dominava il palinsesto radiofonico. Il disco è perfettamente ascoltabile e particolarmente digeribile però non cadete nell’errore di pensare che tutto album sia solo spensieratezza. Il suo sound passa leggero e sembra proprio essere indirizzato ad un pubblico che è stanco di ascoltare arzigogolati ritmi reggaeton che ormai dominano il mondo pop, tuttavia in mezzo ci sono le relazioni difficili, i sentimenti che mutano, solitudine a cui si sommano tematiche moderne come il rapporto con i social media o le disillusioni che la società 2.0 ha creato.
Problemi che vengono affrontati con apparente leggerezza ma che in realtà sono profondi quanto un abisso oceanico. Come ad esempio nella penultima traccia dell’album, intitolata “More Than I Do”, dove la cantante Louise Wener, affronta il tema del divorzio giocando con l’ambiguità delle situazioni. Dal testo si evince che i due protagonisti non si lasciano con rancore ma con la speranza che uno e l’altro sappiano trovare l’amore ancora una volta. “No, I don’t wish you pain / and I don’t wish you damage”. “Look At You Now” è un’altra canzone molto ambigua; alcuni la ritengono un’invettiva contro il mainstream musicale capace di decidere quando e come una band deve – o non deve – avere successo. Altri sostengono che questa canzone sia una denuncia contro la politica che, a distanza di anni, non è stata in grado di dare delle risposte e un futuro certo alle persone.
Riguardo a questo secondo aspetto vanno spese due parole per chiarire quale può essere l’origine del pensiero. Gli Sleeper, come gli Suede, i Pixies, i Blur o gli Oasis, sono nati e si sono formati nella periferia. La cultura sub-urbans è stata fondamentale nel successo dell’indie anni ’90, in quell’epoca con il ritorno al potere dei Laburisti di Tony Blair tutti i membri delle band sperarono che quella svolta a sinistra potesse davvero cambiare le sorti degli outsiders. In realtà ad oggi non è stato così e, probabilmente, gli Sleeper lo hanno riassunto con questo passaggio: “You’re running out of things to wear / Still playing all your hits, all the hits, all the hits / But that won’t take you anywhere.” Da sottolineare come Louise Wener sia dannatamente brava a fare la vedova nera intenta a catturare la sua preda – noi – nella tela che i Sleeper tessono a mo’ di trappola. Alla fine dell’ascolto nessuno potrà dire di essere contro a quanto detto nelle canzoni di questo album. Attenzione però, perché questo non è un album che si abbandona all’oscurità o lancia cattivi presagi. Il pop-rock che la band butta insieme dipinge un paesaggio che rassicura e non tradisce. Per la maggior parte è un album ottimista spesso allegro; sicuramente ironico. Canzoni come “The Sun Also Rises”, “Paradise Waiting” e “Car Into The Sea” lo dimostrano. In definitiva The Modern Age è un disco che va scoperto a 360° proprio per questa sua capacità di farci ritornare ai tempi d’oro della nostra gioventù, di guardarci dentro mettendoci di fronte le nostre paure e di darci speranza grazie alla sua voglia di farci ballare.

Disco della settimana: Richard Ashcroft “Natural Rebel”

Torna con “Natural Rebel”, il suo quinto album solista, l’ex frontman dei Verve Richard Ashcroft. Le dieci tracce che compongono l’album sono un “bignamino” dei suoni dell’anima di Richard.

Scritte interamente da Ashcroft, le canzoni sono state da lui prodotte insieme a Jon Kelly (Paul McCartney, Kate Bush) ed Emre Ramazanoglu (Bobby Gillespie, Jarvis Cocker). Ad anticiparlo il singolo “Surprised by the joy”, il cui video è stato diretto dallo stesso Ashcroft.

Il risultato è un disco “pop”, immediato e volutamente semplice, ma estremamente curato ed efficace, molto lontano dal precedente (poco riuscito) esperimento elettronico di “These People”. L’album esce nei formati 180 grammi vinile, CD e musicassette. Sul sito ufficiale di Richard Ashcroft il merchandise include dischi autografati e una versione limitata blu del vinile.

Così l’album è stato accolto da Ondarock:

“Ci sono due modi per ascoltare il sesto album da solista di Richard Ashcroft. Il primo, probabilmente il più semplice, si basa sull’idea che “Natural Rebel” di ribelle non abbia proprio niente, ma che sia semplicemente un pastiche di tutte le velleità del cantautore di Wigan: languori romantici (“That’s How Strong”), anamnesi del suo passato britpop (“That’s When I Feel It”, “Birds Fly”), spiluccamenti blues (“Born To Be Strangers”), pop orchestrale (“Surprised By The Joy”, “A Man In Motion”), cantautorato crooneristico (“Streets Of Amsterdam”) e rock’n roll serrato e malmostoso (“Money Money”). E probabilmente è proprio così. “Natural Rebel” è tutto questo. Forse un po’ piatto. Troppo condiscendente.
D’altro canto, la seconda possibile interpretazione consiste nel riuscire ad andare oltre le melodie non troppo originali del disco, per accorgersi di quanto queste dieci canzoni siano dirette, prive di sofisticazioni ma al contempo grandemente curate nei variegati arrangiamenti. La “naturale ribellione” del cantautore britannico altro non è che la sua strafottente felicità che non teme giudizi, che si avventura tra melodie semplici e serene, “alberi d’ulivo tra loro intersecati”, un amore adamantino e, soprattutto, la capacità di riuscire ancora a sorprendersi e gioire delle piccole cose, avendo la premura di raccontarle apertamente.
Si poteva fare di meglio? Certamente. In fin dei conti il tanto vituperato “These People” di due anni fa, coi suoi azzardi elettropop, aveva più brio e intensità di quest’ultimo lavoro di Ashcroft, che invece ha un’anima romantica e un assetto omogeneo ma che potrebbe fare breccia nei cuori più sensibili. Anche se brani straordinari dell’era-Verve come “The Drugs Don’t Work” e “Sonnet” sembrano ormai appannaggio del passato.  ”

Così se ne parla su Rockol:

“Ribelle e sprezzante Richard Ashcroft, anche quando c’è da cantare d’amore. Il sentimento che lo lega alla moglie Kate Radley, già tastierista degli Spiritualized, è stato infatti il principale motore che ha generato il nuovo album solista, “Natural Rebel”, in cui da vero eversivo non teme il giudizio di passare per un tenero romanticone dedito alla famiglia.Uscito relativamente in fretta rispetto ai canonici tempi compositivi del cantautore britannico, il disco si distingue per un recupero di quelle atmosfere a lui care, che si misura con un pop-rock piacevole e lezioso quanto basta per avere un utile compendio dell’artista una volta indicato come Mad Richard. Sembrano infatti molto lontani i tempi in cui Ashcroft dava sfoggio del suo umore instabile e di una notoria insofferenza alle regole, sentendolo intonare in questo “Natural Rebel” i versi appassionati di “That’s how strong” (“Your beauty is so fine / Really turns my mind and steals my breath away”), gongolante per un rapporto che evidentemente ha dato un forte imprinting alla scrittura dei brani.Con la consueta aria beffarda e la sua timbrica profonda da moderno crooner, il musicista di Wigan, anche in assenza di particolari sussulti compositivi, canta infatti tutta la sua estasi affettiva in ogni aspetto possibile, muovendosi con disinvoltura tra una suggestione pop e l’altra dalle forti radici anni Novanta. Difficile infatti non ritrovare lo spirito che fu di “The drugs don’t work” nella sofferta ballata di “We all bleed”, così come la più smaliziata “That’s when I felt it” pare appartenere a quelle medesime latitudini, con l’aggiunta di una inedita positività di fondo che ora il vecchio Richard non ha alcuna paura di mettere in mostra.Eppure anche se le atmosfere non sempre brillano per ingegnosa originalità, il cantante applica al lavoro tutte le sue principali pulsioni, emotive e musicali. Alterna momenti energici come il blues sporco di “Born to strangers” e la ruvida cavalcata di “Money money”, in cui si lancia contro lo strapotere del dio denaro, a momenti più intimi come l’iniziale “All my dreams”, prestando il suo gran vocione a echi di britpop, rock, folk e easy listening. Nel farlo cade anche in qualche scivolone, come nella altrimenti accorata “Streets of Amsterdam” in cui inciampa in un testo che recita “You could be Yoko and I could be John / We’ll stay in bed and they’ll ban the bomb”, peccando di eccessiva tracotanza.Per manifestare così tutto il migliore repertorio sentimentale di cui dispone, Richard Ashcroft sceglie perciò di rivisitare il suo passato, aggiornandolo ai nostri giorni con semplici giri di accordi e un’orchestrazione leggera tutta a beneficio della propria ugola eccellente. “Surprised by the joy” e “A Man in motion”, ma anche le già citate “We all bleed” e “That’s when I felt it” sono i fra momenti di forza di un disco che tenta di mettere d’accordo ambizioni, riferimenti e personalità con una sequenza di brani d’autore dal gusto classico e un filino melodrammatico. D’altra parte, i pregi di “Natural rebel” sono anche i suoi limiti principali, finendo per risultare un po’ prevedibile nella sua cadenzata e impermeabile coerenza.Pur senza particolari velleità quindi quello che Ashcroft restituisce è il carattere di un artista che non mai messo da parte la sua indole più spavalda e si lascia andare ai bei vecchi tempi in cui da leader dei Verve andava dritto per la sua strada senza curarsi di niente e di nessuno, felice, libero e strafottente. Un irriducibile che rischia anche quando, alla fine, sceglie di non rischiare affatto. Come un vero ribelle, appunto.”

 

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