Riceviamo e vogliamo pubblicare e diffondere il testo che ci ha inviato una nostra ascoltatrice: Maria Gabriella, 61 anni di Campi Bisenzio. Ha conosciuto Oliviero nel 2002 e nel 2022 si sono sposati. Lo ha deciso lui dopo l’ennesimo ricovero e l’ennesimo tentativo di operarlo. E’ morto poco meno di due anni fa, all’età di 57 anni. “Era un insegnante di musica, un uomo dolce, serafico e adorabile. Ci siamo amati da subito e fino all’ultimo giorno. Io lo amo ancora ed è per questo che voglio raccontare la nostra triste storia, perché l’ultimo mese di vita assieme ce lo hanno proprio rubato ingiustamente”.
Le parole di Maria Gabriella si riferiscono alla sua esperienza personale, non volendo generalizzare né rispetto al sistema sanitario né rispetto alla funzione degli hospice (strutture specializzata nel fornire cure palliative a pazienti con malattie inguaribili in fase avanzata o terminale, quando le cure a domicilio non sono sufficienti o possibili). Ma ci forniscono una riflessione preziosa sulla dignità del fine vita, gli interrogativi che si pone il paziente e anche chi gli sta accanto e come porsi umanamente e professionalmente davanti a tutto questo.
Cosa vuol dire accompagnare alla morte?
Quale la funzione dei medici dopo la peggiore delle diagnosi?
Come ci si deve arrivare a questo traguardo? Qual è, o quali sono gli ultimi desideri di un condannato… Fumarsi una sigaretta? Stare con i propri cari? Accarezzare il proprio gatto? Guardare una serie televisiva? Non lo sapremo finché non toccherà a noi.
Insieme, quando il corpo non risponde più alle cure, a mio avviso, è l’anima che dobbiamo
avere a cuore e fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità affinché le sia dato ancora
nutrimento, pace, armonia.
E non c’è armonia in un letto asettico di un ospedale o di un hospice.
Mi auguro solo di essere stata sfortunata nella mia esperienza di moglie di un uomo
malato oncologico in fase terminale, non voglio davvero generalizzare e pensare che questo sia l’iter di tutti.
Ho dovuto lottare contro tutto, in primis col tempo, e poi col personale sanitario e perfino con la burocrazia!
Il primario che ha operato Oliviero, poteva farmi morire d’infarto quando al telefono
mi ha comunicato che gli sarebbero rimasti sei mesi di vita, salvo poi correggersi in una
sala di attesa gremita di gente pronta a far visita ai propri familiari, e dirmi che di mesi
ne rimanevano solo tre e il consiglio di sistemare eventuali cose pendenti.
Ma si può?
No, non mi sembra questo un adeguato trattamento anche per chi rimane, mi chiedo
se facciano psicoterapia, e se la fanno, mi domando con chi.
Chi rimane deve convivere col profondo dolore della perdita e col dubbio di non aver
osato abbastanza… e mi riferisco all’hospice, in cui siamo entrati come in un vortice.
Oliviero, era la serenità fatta persona, eppure solo dopo un giorno e mezzo i suoi nervi hanno avuto la meglio, diceva: “ti sembra questo un bagno? il comodino è uno scomodino, la tv un francobollo attaccato al muro, e anche tu, non dovresti stare in questo brutto posto.”
“La morte ti deve trovare viva” ho sempre sentito dire, invece nel luogo dove ho avuto questa triste esperienza, no, sei già morto come entri e l’approccio è stato di pietismo, monotonia di terapie inutili, attesa di preparare la stanza per il prossimo sfortunato. Tempo prima parlavamo della malattia di Michela Murgia e sinceramente mi faceva strano vederla sui social o in tv, così radiosa, sorridente, propositiva e ancora combattiva.
Poi ho capito.
La vita è vita, e in quanto vita, preziosa fino all’ultimo istante, e anche noi abbiamo cercato
di viverla bene fino all’ultimo giorno. Venivano tanti amici, si suonava, si cantava, si rideva
nella stanza 6, semplicemente si continuava a vivere ed abbiamo scardinato un sistema. “Questa è la vostra casa, potete fare ciò che volete, per le visite non ci sono passi, la struttura è sempre aperta”, salvo poi discutere perché volevamo dormire con la porta
chiusa e le luci spente. Anche gli amici erano troppi, troppa allegria, “il paziente deve
riposare, stare tranquillo”.
Abbiamo espresso il desiderio di tornare a casa per ben tre volte, “sì, sì, va bene” ci
dicevano, poi puntualmente, al momento delle dimissioni, mi prospettavano eventuali
scenari apocalittici. Ci hanno fatto sentire prigionieri.
Siamo stati un mese in quel posto, e cosa avrebbe dovuto fare mio marito in tutto quel
tempo, guardare il soffitto? E’ stato totalmente autonomo fino a qualche giorno prima che morisse, ma ci possiamo fermare e ragionare su come una persona possa sentirsi quando guardandosi allo specchio vede l’ombra della falce che si abbatterà presto su di essa? Ancora mi chiedo cosa voglia dire accompagnare alla morte ma soprattutto che ne è della dignità della vita.