Jack Savoretti in concerto a Firenze. Acoustic Night al Teatro Verdi di Firenze

Jack Savoretti venerdì 25 maggio al Teatro Verdi per un’altra attesissima tappa fiorentina, stavolta nell’ambito dell’Acoustic Nights Live, il nuovo tour del cantautore italo-inglese.

Il progetto nasce dal successo di “Sleep No More – special edition”, doppio album nato da una costola dell’incensato “Sleep No More”, aggiungendo inedite versioni acustiche di suoi brani.
Da qui l’idea di un live acustico ambientato nei teatri storici italiani, circondati dall’arte e dalle atmosfere vellutate di questi luoghi. Jack Savoretti suonerà in quartetto insieme a al fidato Nikolaj Torp Larsen al pianoforte e, direttamente dalla band di Paolo Conte, a Piergiorgio Rosso al violino e Francesca Gosio al violoncello.

Jack Savoretti anglo-italiano, è tra le nuove star del pop-rock internazionale. Premiato come “miglior nuova proposta internazionale” agli Onstage Awards 2015, è nato a Londra nel 1983. È cresciuto a Lugano, dove ha iniziato a scrivere musica, per poi trasferirsi al college a San Francisco nel 2001. Rientrato a Londra con la ferma intenzione di fare musica sul serio, ha i suoi primi riconoscimenti nel 2012 con il suo brano “Hate and Love”, in duetto con Sienna Miller, diventato la colonna sonora del serial “The Vampires diaries”. In questi ultimi anni ha aperto il concerto di Bruce Springsteen all’Hard Rock Calling Festival di Londra e quello di Neil Young a Hyde Park, Paul Mc Cartney lo ha cercato per il suo videoclip “Queenie eye”

(inizio spettacolo ore 20,45 – ingresso dalle ore 19)

Info concerto Savoretti Firenze
Teatro Verdi – via Ghibellina, 99 – Firenze
Tel 055.667566 – 055.212320 – #savorettifi18

Biglietti posti numerati (esclusi diritti di prevendita)
1° settore platea 43 euro
2° settore platea, galleria e palchi I-II-III ordine 35 euro
3° settore palchi IV-V-VI ordine 28 euro

Seconda edizione 
del WØM FEST 
a Lucca dal 24 al 26 maggio

Torna il WØM FEST, tre giorni di musica dal vivo, dal 24 al 26 di maggio nel giardino della cinquecentesca Villa Bottini, nel cuore di Lucca. Con Selton, Colapesce, Donatella Rettore e molti altri…

Sempre alla ricerca degli artisti più rappresentativi della scena indie italiana, il WØM FEST alza l’asticella delle sue proposte e propone per la serata di apertura il sound irresistibile dei SELTON, brasiliani di nascita, ma ormai italianissimi di adozione, COLAPESCE, nome di punta dell’onda cantautorale italiana degli anni ’10, che porterà sul palco il suo fortunato ultimo album “Infedele” e DONATELLA RETTORE, raro esempio di cantautrice, nel mondo della Canzone Italiana, che ha saputo coniugare avanguardia e mainstream con ironia e libertà artistica.

Un ruolo importantissimo lo giocheranno anche le altre band che suoneranno sul palco del WØM FEST, come GENERIC ANIMAL, uno dei progetti emergenti del momento, l’eleganza dei fiorentini LA NOTTE, FRANCESCO DE LEO, il progetto solista del frontman de L’Officina della Camomilla, in questi giorni impegnato con il tour dei Baustelle, e gli indie-hero locali Effenberg, Gionata e Ciulla.

Anche per questa seconda edizione lo scenario in cui si svolgerà il WØM FEST sarà il meraviglioso parco di Villa Bottini, gioiello indiscusso del centro storico di Lucca. Costruita nel XI sec. dalla famiglia Buonvisi e acquistata agli albori dell’ottocento da Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone, la villa contiene all’interno del proprio recinto un giardino ricco di fontane, roseti, siepi, alberi e ampie zone verdi che regalano un’esotica sensazione di pace.

 

 

Album della settimana: Arctic Monkeys

Gli Arctic Monkeys ritornano con il loro sesto album intitolato Tranquility Base Hotel & Casino. Prodotto da James Ford e Alex Turner, l’album è stato registrato tra Los Angeles, Parigi e Londra e segna un punto di svolta nella carriera della band.

Tranquility Base Hotel & Casino, il loro primo album dopo AM del 2013, vede la band continuare ad esplorare nuovi territori musicali. Il nuovo album alza la posta in gioco; è un album introverso e audace, che riflette più di altri la visione creativa del solo Turner, un lavoro che mette da parte le chitarre taglienti e i riff granitici per trasportarci in un ovattato futuribile universo vagamente bowiano più vicino alle atrosfere toccate da Turner con i Last Shadow Puppets. Quasi superfluo dire che l’uscita ha diviso fan ed estimatori della band tra perplessi ed entusiasti.

L’LP esce con una copertina apribile, contiene i testi dei brani, un booklet fotografico ed in esclusiva sullo store ufficiale della band, in vinile color argento. E’ disponibile anche in edizione standard su CD, vinile e digitale.

A maggio la band partirà per un tour mondiale che toccherà l’Italia per tre date già completamente sold-out, il 26/27 maggio a Roma e il 4 giugno al Forum di Assago (MI)

Così accoglie il lavoro Rockol:

Presto! Qualcuno corra ad aggiornare Wikipedia et similia, prima che scoppi qualche incidente diplomatico. L’ignaro curioso che si avvicinasse agli Arctic monkeys pescando nel mare magnum del sapere in salsa Wiki, infatti, leggerebbe che suonano garage punk, post punk, indie rock e alternative rock… peccato che nemmeno mezza di queste definizioni calzi per descrivere il nuovo – e decisamente coraggioso – lavoro in studio del gruppo di Sheffield. Anzi. Un confronto con quanto pubblicato prima avrebbe lo stesso (non) senso di comparare uno smarthpone con un rasoio elettrico: proprio non è possibile. Cosa è successo? Immaginate una sorta di spaesamento non dissimile a quello che potrebbe avervi colto ascoltando per la prima volta “Boarding House Reach” di Jack White. Vi aspettavate qualcosa che non arriva nella forma prevista; anzi, in questo caso è sostituito da elementi spiazzanti, inediti, tanto da farvi pensare di avere sbagliato disco, che forse non è questo l’ultimo degli Arctic Monkeys (“il mouse sarà rotto, clicca dove vuole” oppure “mi hanno dato un cd difettoso!”). Ma no, i vostri mouse vanno benissimo e il cd è quello corretto. Semplicemente Turner e i suoi hanno cambiato radicalmente registro, mood, texture e modalità espressive. Oltre ad avere prepotentemente scoperto il suono del piano, che insieme alla voce è il vero signore e padrone dell’album.
Bye-bye chitarre e sezione ritmica tonante, insomma. Le sei corde, in particolare, fanno cucù raramente e per break brevissimi, a dirla tutta. E il tiro, l’esuberanza, il rock (indie, alt o altro) sono stati chirurgicamente eliminati. Siamo immersi, piuttosto, in un caldo liquido amniotico fatto di lounge music scura e malinconica, con suggestioni futuristiche. Ecco: immaginate un jazz bar anni Quaranta (con tanto di crooner resident) piazzato in un cratere lunare e al bancone è appoggiato un tipo stile Philip Marlowe, ma con un giubbotto di pelle che cade a pezzi. Insomma, una visione distopica che frulla familiarità e straniamento. Non è un disco facile e non è garantito che piaccia a tutti. Soprattutto, occorrono più ascolti per annusarlo, entrarci, penetrare l’atmosfera febbrile lounge dark, da musical malato e bohemienne. “Volevo solo essere uno degli Strokes, e adesso guarda che casino che mi hai fatto combinare / Faccio l’autostop con la valigia in mano, a miglia di distanza da qualunque autostrada immaginaria”: sono le prime parole pronunciate da Alex Turner nel disco. Sta a noi provare a seguirlo in questo viaggio a sorpresa, che ha a priori il pregio di non essere prevedibile, scontato o banale.

Così Sentireascoltare:

Sono trascorsi cinque anni dall’esplosivo AM, dichiarazione d’intenti per gli Arctic Monkeys che dopo qualche anno di stanca annunciavano il proprio ritorno rock scomodando i fasti del britpop più prestigioso (sponda Blur), ma rivestendolo di una patina tipicamente americana (tra Jack White e Foo Fighters) in modo da non dare adito a equivoci sulla vena espressiva di una band ormai pienamente consapevole della propria identità (e in questo senso andava interpretato il titolo serrato di quel disco). Nell’anno domini 2018, e con alle spalle la seconda uscita discografica dei suoi Last Shadow Puppets, Alex Turner cambia nuovamente rotta e organizza per le sue scimmie artiche una piccola rivoluzione che non ha paura di scomodare i grandi monumenti musicali del passato. Impossibile, infatti, non tornare con la mente alla potenza sconvolgente di un disco come Pet Sounds dei Beach Boys, al quale il nuovo Tranquility Base Hotel & Casino è ovviamente ispirato, sia in termini musicali che produttivi, o al Revolver dei conterranei Beatles. Piccolo antefatto: nel 2016, Alex Turner riceve da un amico uno Steinway Vertegrand per il suo 30° compleanno. La mente, quindi, torna alla sua infanzia, quando per qualche anno prese lezioni di pianoforte, il cui unico risultato fu quello di riuscire a pizzicare i tasti in maniera improvvisata e anche un po’ comica. Decide allora di approfondire e dopo giorni interi passati davanti al pianoforte inizia a concepire le prime melodie. L’atmosfera è delle più rilassate, quasi fossimo proprio all’interno di un mini-club hollywoodiano, con luce soffusa e il fumo di qualche sigaro clandestino che si diffonde attraverso il locale. È un colpo di fulmine inaspettato. Il ritrovato amore per quello strumento a lungo accantonato in un angolo della propria memoria, spinge Turner in una direzione inedita che porta alla composizione di questi undici brani dalla forma e la struttura precisissima, la cui impressione iniziale potrebbe portare qualcuno a parlare di maniera, ma che a un ascolto attento finirà per ricordare essenzialmente la parola architettura. Già, perché proprio come la scultura rappresentata sul fronte di copertina, Tranquility Base Hotel & Casino è un lavoro concepito per stupire, dalle forme ora sinuose ora arzigogolate, che alla fine della giostra regala un senso di appagamento derivante dalla perfetta alchimia tra tutte le parti chiamate in causa. E proprio come nel già citato Pet Sounds, è come se un milione di suoni vibrantissimi si fossero messi d’accordo per risuonare armonicamente all’unisono, ciascuno col proprio delicato compito: imboccare una strada del tutto inedita per la storia del gruppo. Ci pensa benissimo quindi Star Treatment a dettare le linee guida di una discesa nell’anima più dolce del suo cantautore, che con un enfasi malinconica ricorda i primi sintomi di una malattia musicale pronta a diffondersi in ogni parte del suo corpo («I just wanted to be one of the Strokes, now look at the mess you made me make / Hitchhiking with a monogrammed suitcase, miles away from any half-useful imaginary highway») per poi incalzare con One Point Perspective, aggiornamento wilsoniano del pop più aggraziato che ha più di qualche punto in comune con i recenti Grizzly Bear (riff al piano compreso). Un’indole causticamente politica si affaccia alla nuova visione – al netto della consueta dolcezza dell’incedere – come in Golden Trunks, tra Presidenti wrestler innamorati della propria immagine e la noia abitudinaria da social network («The leader of the free world reminds you of a wrestler wearing tight golden trucks / My virtual reality mask is stuck on ‘Parliament Brawl’ / Emergency battery pack just in time for my weekly chat with God on Videocall»). Ci accomodiamo, invece, come all’interno di una sala cinematografica per assistere al cambiamento in atto di questa band che pure non dimentica le proprie radici, il passato recente o i binari paralleli (la title-track è un pescare a piene mani dal futuro, ma con uno sguardo sottile all’esordio solista, Submarine, mentre Four Out of Five servirà da ciambella d’emergenza per coloro che avevano amato alla follia AM). The World’s First Ever Monster Truck Front Flip ci riporta alla vena squisitamente beachboysiana dell’album, con quell’andamento che cita a più riprese Let’s Go Away for Awhile. Nella parte conclusiva del disco emergono prepotenti le influenze beatlesiane che qui è là avevano già fatto in capolino in passato; così, She Looks Like Fun appare come la sintesi ragionata tra l’animo da poeta rivoluzionario di Lennon, la prosa malinconica di McCartney e l’inconfondibile riff harrisoniano alla chitarra. A Batphone e The Ultracheese viene lasciato il compito di chiudere in maniera drastica questo ritorno entusiasmante: all’impatto devastante dell’incipit è legata una chiusa altrettanto improvvisa e inaspettata, rimandando a un eventuale prossimo capitolo cui spetterà il compito di stabilire se gli Arctic Monkeys rinati di Tranquility Base Hotel & Casino siano stati solo una parentesi geniale oppure l’inizio di un nuovo e accattivante corso tutto da scoprire.

Così, tra le fila dei “perplessi”, Ondarock:

L’avrete già letto ovunque: gli Arctic Monkeys non sono più gli stessi e ora scrivono canzoni al pianoforte. Sarebbe sciocco negare l’evidente verità su cui si basa quest’affermazione, se non fosse per il tono di rimprovero che questa porta con sé, unito al chiaro sentimento di delusione derivante da un supposto “tradimento” compiuto dalla band di Alex Turner nei confronti dei suoi stessi fan. Sono convinto che se questo “Tranquility Base Hotel & Casino” fosse uscito come album solista di Turner, tutti, fan integralisti compresi, l’avrebbero salutato come un coraggioso cambio di stile. Invece, il disco è accreditato a nome Arctic Monkeys, gli stessi dei riff di chitarra incendiari e iconici, gli stessi di “Do I Wanna Know?” e di “AM”, album che ha decuplicato la fanbase delle Scimmie di Sheffield, catapultandole in vetta allo stardom del rock mondiale. E insomma, così non va bene.
In realtà, la prima nota positiva è proprio questa: la scrollata di spalle che questo lavoro rappresenta nei confronti del disco precedente, un blockbuster che cinque anni fa lasciò in eredità una sovraesposizione mediatica scomoda da gestire per lo schivo frontman. Conclusasi l’esperienza Last Shadow Puppets dopo un secondo album e un tour mondiale nel 2016, in difficoltà nel cogliere nuovi stimoli creativi dalla tanto amata chitarra, Alex ha preferito ripiegare sullo Steinway Vertegrand regalatogli dal manager in occasione dei suoi trent’anni, trovando sui tasti di questo una nuova linfa compositiva. E il risultato delle nuove sessioni di scrittura e composizione, avvenute nella casa di Turner a Los Angeles, è proprio il disco che ci troviamo ad ascoltare, prodotto al solito assieme al fido James Ford. Ma com’è, quindi, “Tranquility Base Hotel & Casino”? 
A scanso di equivoci, è bene sottolinearlo subito: stiamo parlando di un disco abbastanza deludente. Se le premesse erano buone e la scelta di mettersi in gioco stravolgendo i propri canoni stilistici è certamente da premiare, non lo è però il risultato, che ci consegna una band, o sarebbe meglio dire un autore, decisamente fuori fuoco. “Tranquility Base Hotel & Casino” è talmente Turner-centrico da esserne dipendente, a partire dagli arrangiamenti, tutti vicini a un blando piano-rock privo di particolari guizzi, ma finalizzato solo ad accompagnare le parole e la voce di Alex, a questo giro vagamente Bowie-ana nell’impostazione. Quest’ultima, un po’ come le trame armoniche su cui poggia, spesso si slancia in strutture che si dilungano eccessivamente, finendo con l’annoiare invece che avvolgere. Lo stesso frontman, inoltre, sembra non cantare più per il pubblico, né per se stesso, ma per il sé allo specchio: lo si riesce quasi a vedere, compiacersi delle sue pose e delle sue espressioni facciali, crooner narciso della sua vita privilegiata. I testi che intona, poi, sono deliri un po’ patetici da star incompresa, i quali, più che stimolare empatia, generano distacco e disinteresse.
L’idea alla base degli arrangiamenti sarebbe quella di ambientare queste composizioni nella Hollywood malinconica e decadente di qualche decennio fa, sulla scia, per intenderci, dei recenti lavori di Lana Del Rey e Tobias Jesso Jr. L’estetica da piano bar, la patina raffinata e la veste volutamente rétro di queste canzoni, però, appaiono piatte e stereotipate, forse anche perché sfavorite dall’essere al servizio di composizioni piuttosto modeste. L’album – fa strano scriverlo per quelli che sono i suoi protagonisti – funziona più come prodotto lounge-pop che come opera da cui lasciarsi coinvolgere e emozionare. Come musica d’accompagnamento, si fa apprezzare discretamente, ma è un po’ avvilente che una band come gli Arctic Monkeys, appartenente all’Olimpo del rock contemporaneo, sia oggi schiava dei vezzi del leader e non riesca a proporre qualcosa di più stimolante.
Dai riffoni punk’n’roll degli esordi alle vampe stoner di “Humbug”, passando per le morbidezze californiane di “Suck It And See” e in ultima istanza al muscolare hip-hop-rock di “AM”, gli album degli Arctic Monkeys hanno sempre dimostrato una qualità che in questo disco manca: la solidità, l’organicità di fondo che permetteva all’intero di superare la somma delle sue parti e soprassedere sui piccoli passi falsi in cui incappavano certe volte questi lavori. In “Tranquility Base Hotel & Casino”, invece, a salvare dalla completa delusione sono proprio i singoli episodi: il passo cadenzato e gli impasti vocali di “Four Out Of Five” non avrebbero sfigurato in “Humbug” (il loro migliore per chi vi scrive); l’elegante art-pop di “The World’s First Ever Monster Truck Front Flip” farebbe la gioia dei Grizzly Bear; i saliscendi psych-pop di “Golden Trunks” e “She Looks Like Fun” oscurano da sole tutto l’ultimo mediocre dei Last Shadow Puppets; la conclusiva e lennoniana “Ultracheese”, seppur legata ad alcuni cliché melodici, è ottima come romantico congedo. Ma sono solo piccoli lampi di luce in un disco per lo più nebbioso e monocolore, un’opera composta secondo l’autoritario gusto di Alex Turner, ma che non fa che evidenziarne l’attuale confusione e carenza di idee.
In questo, davvero, gli Arctic Monkeys sembrano non essere più gli stessi, nell’aver perso la lucidità di fondo, la chiarezza alla base della loro scrittura e del loro lavoro. “Tra cinque anni la domanda sarà/ Chi diavolo sono gli Arctic Monkeys?”, cantavano le stesse Scimmie nel 2006. E cinque anni dopo, soddisfacente o meno, una risposta chiara arrivò con “Suck It And See”. Oggi, invece, alla questione non sapremmo cosa rispondere. La chiave potrebbe averla lo stesso artista che formulò la domanda, ma l’impressione è che non lo sappia nemmeno lui, e che forse, innamorato di sé e assorto nel suo mondo, non abbia nemmeno voglia di pensarci.

 

Secondo appuntamento del Girone Jazz con “Piero Borri & Friends”

Una serata speciale, che unirà sullo stesso palco cinque grandi musicisti, punti di riferimento del jazz italiano. Piero Borri alla batteria, Stefano Cocco Cantini al sax, Nico Gori al clarinetto, Kalmàn Olàh al piano e Ares Tavolazzi al contrabbasso. Martedì 22 maggio alle 21.30 presso il Circolo Arci Il Girone di Firenze (via Aretina 24)

Saranno il batterista Piero Borri, insieme ai musicisti Stefano Cocco Cantini al sax, Nico Gori al clarinetto, Kalmàn Olàh al piano e Ares Tavolazzi al contrabbasso, punti di riferimento del jazz italiano, i protagonisti del concerto di martedì 22 maggio alle 21.30 presso il Circolo Arci Il Girone di Firenze (via Aretina 24).  L’evento “Piero Borri & Friends” è il secondo appuntamento della rassegna Girone Jazz, giunto alla 14/ma edizione, a cura de Nuovi Eventi Musicali, Il Girone e Eventi Music Pool, che fino al 29 maggio, proporrà appuntamenti per esplorare tutte le sfumature del jazz, in compagnia delle stelle del panorama jazzistico italiano e straniero (ingresso 12 euro, 10 il ridotto).

“Sono molto contento di partecipare a questa nuova edizione del Girone Jazz” – dichiara il batterista Piero Borri – perché c’è sempre stato un ottimo riscontro sia con l’organizzazione che con il pubblico che ci ascolta. In questa occasione ho scelto di avere al mio fianco degli artisti che sono quelli a me più cari, bravi e vicini. A parte Kalmàn Olàh, che viene da Budapest, abbiamo tutti suonato insieme da tanti anni e tutti si conoscono reciprocamente. È la prima volta che suoniamo in questa formazione e sono convinto che sarà un’ottima occasione per mescolare le carte, sperimentare nuove combinazioni e mettersi alla prova”.

Durante il live Piero Borri & Friends proporranno un repertorio di brani originali dei singoli componenti del gruppo ma anche dei pezzi standard anni ’70 “ricercando quelle sonorità tipiche che mi ricordano il periodo in cui iniziai a suonare, un ritorno un po’ romantico” – aggiunge Borri.

Il Girone jazz si chiuderà il 29 maggio con i Dinamitri Jazz Folklore. Prezzi: ingresso unico 12€ intero, 10€ ridotto per soci Arci, giovani fino 25 anni per le date del 22 e 29 maggio

Nella corte del ristorante Quinoa c’è “Classica”: martedì concerto di fisarmoniche con l’ensemble del Conservatorio Cherubini

Nella corte del ristorante Quinoa c’è “Classica”: domani, martedì 22 maggio, ore 19.00 concerto di fisarmoniche con l’ensemble del Conservatorio Cherubini

La musica classica dei giovani studenti del Conservatorio Cherubini nella corte più animata del centro di Firenze, quella del ristorante gluten free Quinoa. Ci saranno sax, fisarmoniche e pianoforte che daranno nuovo colore a capolavori senza tempo. Si chiama  “Classica” ed è la rassegna musicale dedicata a chi ama il genere e non trova mai troppa scelta in città, ma soprattutto a chi non conosce bene questo tipo di musica ed è pronto a farsi sorprendere.

Domani,  martedì 22 maggio, serata dedicata alla  fisarmonica con l’ensemble del Conservatorio di Firenze: Victor Chistol, Antonio Zappavigna e Xu Fengwen. La pluripremiata formazione, nata da un’iniziativa del Maestro Ivano Battiston, ci propone un viaggio che dalla Francia ci porta ai Balcani, accompagnati dalle note di Yann Tiersen ne “Il fantastico mondo di Amelie”, poi Piazzola e Kramer.

La magia della note che si rincorrono tra le piante e i fiori dell’orto urbano si accenderà ogni martedì all’ora dell’aperitivo, dalle 19 in poi.

Prossimo appuntamento, martedì 29 maggio con “In-canto al tramonto”: la musica da camera invaderà la corte del vicolo di  Santa Maria Maggiore. Jade Lin, soprano, Giuseppe Surace, tenore, e Daniele Galli al pianoforte eseguiranno musiche di Gounod, Schumann, Donizetti, Bellini, Rossini, Tosti e Verdi

ContempoArtEnsemble al LXXXI Festival del Maggio Musicale Fiorentino

ContempoArtEnsemble al LXXXI Festival del Maggio Musicale Fiorentino. lunedì 21 maggio ore 20.00, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Duccio Ceccanti violino, Roberto Noferini violino, Vittorio Ceccanti direttore

Dal 2002 ad oggi, ContempoArtEnsemble conta tredici presenze nel cartellone del Maggio Musicale Fiorentino dove ha eseguito brani in prima assoluta e in prima italiana di alcuni dei massimi compositori: Maderna, Reich, Maxwell Davies, Vacchi, Fedele, Saariaho, Barriere, Cage, Pousseur, Harvey, Bussotti, Sotelo, Glass, Piazzolla e Sciarrino.

Gruppo di musicisti a geometria variabile, da sempre specializzato nella promozione della musica contemporanea e nella fusione tra questa e le arti visive, il Contempoartensemble nasce nel 1992, i suoi dischi sono vere e proprie opere d’arte, realizzate da alcuni tra i più importanti artisti dell’oggi: Michelangelo Pistoletto, Jean-Michel Folon, Dani Karavan, Gerard Richter, Sol Lewitt; il disco realizzato in collaborazione con quest’ultimo artista per l’etichetta ARTS è stato il primo cd ad entrare a far parte della collezione permanente del MOMA Museum di New York.

 

Duccio Ceccanti violino

Roberto Noferini violino

CONTEMPOARTENSEMBLE

Vittorio Ceccanti direttore

Carl Philipp Emanuel Bach

Sinfonia in mi minore Wq. 177, H.652 per archi e cembalo (1759)

Al’fred Šnitke

Concerto Grosso n.1 per due violini solisti, clavicembalo, pianoforte preparato e archi (1977)

Luca Francesconi

Vertigo per violino e orchestra d’archi

scritto per Duccio Ceccanti in occasione del Maggio Musicale Fiorentino 2018  prima assoluta

Sylvano Bussotti

Marbre pour cordes (1967)

Omaggio al compositore

Dmitrij Šostakovič

Sinfonia da camera op.110a, orchestrazione di Rudolf Baršaj dal Quartetto per archi n.8 (1960/74)

 

 

Note Musicali

Da sempre Contempoartensemble ha portato avanti un percorso di scoperta del nuovo e riscoperta del meno conosciuto in campo musicale, forte della convinzione che la diffusione della musica contemporanea sia parte integrante nella formazione di un paese, soprattutto in un periodo storico di frammentazione sociale e culturale come quello nel quale viviamo.

Il programma del concerto vede una sequenza poliedrica di compositori che hanno fatto della musica strumentale lo snodo della loro poetica creativa, all’insegna dell’innovazione e della sperimentazione tra generi.

1 – Sinfonia in mi minore Wq 178, Carl Philipp Emanuel Bach

Una sinfonia che è pietra di paragone per il superamento del barocco verso un preromanticismo all’insegna della sensibilità.
A differenza del fratello maggiore Wilhelm, Carl Philipp riuscì ad assimilare la forte influenza del padre Johann Sebastian, nella fattispecie una perfezione contrappuntistica e un potente dinamismo, e convogliarla nella creazione di un proprio stile, denso di drammatica espressività e variazioni melodiche improvvise, di cui la Sinfonia in Mi minore è un chiaro esempio e prototipo del romanticismo che stava allora muovendo i primi timidi passi. Fu un momento unico di rottura col passato, avvicinabile per intensità a quello che succederà con le avanguardie del Novecento. L’architettura monumentale della musica barocca si sgretolò come un castello di sabbia e il vento della novità portò quella sabbia a formare una rinnovata sensibilità, l’Empfindsamkeit, base su cui poggerà il nuovo filone musicale.

2 – Concerto Grosso n°1, Al’fred Šnitke

Composto nel 1977, definito dal creatore stesso “l’incastro di tre sfere”, l’opera è l’exemplum della molteplicità degli stili tipica del compositore erede ideale di Šostakovič. Splendidamente virtuosa, caratterizzata dalla ricorrenza di leit-motiv e dall’uso armonico-melodico dell’inversione degli intervalli, il tutto a dare coesione ad una struttura complessa, anche dal punto di vista filosofico. Tre macrosistemi (il Barocco, il Moderno, il Banale) difficilmente avvicinabili, fusi e sorretti da un’impeccabile coesione strutturale. Il primo sistema traghetta nel polistilismo metafisico del compositore rimandi soprattutto a Corelli ma anche a Vivaldi, per fondersi poi al secondo, basato sulla microatonalità, (unione di micro-intervalli e

una scrittura atonale libera); il tutto si alterna e mischia con strategia saggiamente misurata al terzo, il Banale, che rappresenta il male della musica triviale, che mesce malamente e indifferentemente qualunque tipologia di musica. Ha carattere prettamente funzionale, ed è un male necessario perché rappresenta la vita. Quindi è un male di tipo esistenziale. Tre sfere diverse che sono il dialogo di differenti epoche, rappresentate quindi da diverse stratificazioni musicali. Mentre secondo Cage questo dialogo simultaneo è positivo e oggettivo, per Šnitke la cosa è più personale e tragica: queste sfere sonore sono stridenti e aliene tra loro, troppo contrastanti; unite in maniera tragica e inevitabile: figurazione in musica del male di vivere.

3 – Marbre, Sylvano Bussotti

Segue Marbre, per archi, dedicato ai Solisti Veneti, composto nel 1967 e considerato allora per l’autore come il suo “tenero addio alla musica da camera, fatto di ricordi e simile a una piccola sepoltura”1. Pezzo emblema della cifra stilistica di Bussotti, allievo di Dallapiccola e Boulez, dove la massa musicale è esaminata per mostrarsi in continuo movimento, aerea nella sua forte densità, “come un pezzo di marmo che lucida continuamente se stesso.”2 I ritmi sono raramente indicati precisamente e quando, casualmente, lo sono “è solamente come l’eco lontana di un’epoca, dove essi non possono essere osservati diversamente” 3. Fortemente curato a livello armonico “con un amore che confina con l’insania, in particolar modo nella conclusione che vorrei di una sostanza eterea, forse leggermente anonima” precisa il compositore. La poetica degli affetti, tanto cara a Bussotti, è espressa nel fiorire timbrico degli archi e negli interventi della spinetta, nell’alternarsi e nel fondersi di stazioni solistiche dilatate e sezioni di gruppo, dotate di una profonda tessitura polifonica. L’orchestra d’archi è divisa in un trio (violino, viola e violoncello), un quartetto tradizionale e un doppio trio di tre violini. La spinetta e il contrabbasso hanno parti autonome. Ogni gruppo è disposto in modo tale da suonare indipendentemente l’uno dall’altro, ma anche insieme.

L’opera esordisce e termina per episodi, dove i differenti gruppi strumentali si manifestano separatamente o assieme. La sezione centrale, aperta da pizzicati, impegna tutti gli strumenti. Brano dotato di una netta componente aleatoria, dove ciascun musicista è incaricato di una cadenza personale che il direttore può richiedere quando vuole e associabile all’esecuzione di altre singole cadenze. Il tutto trasforma e rinnova ogni volta lo svolgimento del brano, donando a ogni sua esecuzione il carattere di novità.

1 Sylvano Bussotti.

2 Idem.

3 Idem.

4 – Vertigo, Luca Francesconi

“L’orchestra resta una macchina meravigliosa, che regala un piacere quasi carnale; sono convinto che finora abbiamo sfruttato solo una piccola percentuale di potenzialità dell’orchestra […]”.
Dotato di una voracità creativa senza paura, Francesconi è uno dei compositori più produttivi dell’oggi. Ha studiato pianoforte al Conservatorio di Milano e composizione con Azio Corghi, Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio, del quale per un periodo è stato assistente. Ha scritto molta musica di teatro e più di settanta composizioni utilizzando svariate formazioni strumentali, comprese le tecnologie multimediali più innovative. Perno sul quale ruota la sua vena creativa è il filone della melodia occidentale, “dal silenzio al rumore”, nel quale mesce una forte narratività teatrale, sviluppando una musica eclettica, descrittiva e pittorica, mai didascalica.

[…] Vertigo è un gioco mimetico fra strumenti della stessa origine e colore, gli archi. Nell’omogeneità della famiglia strumentale si creano e si annullano densità, prospettive ora trasparenti ora solide come pietra. La forma generale è semplice: una lunga vertigine discendente, una caduta dall’acutissimo al gravissimo che percorre la prospettiva in modo anche obliquo. Ma c’è un elemento che rende questa dinamica molto differente E’ un altro strumento ad arco, il violino solista. Esso dapprima apre il gioco con una lunga cadenza che sembra costruire i presupposti dell’intero pezzo, quasi un riassunto retrogradato del viaggio che seguirà. Infatti parte dai rudi colori delle corde vuote gravi dello strumento, poi gradualmente ci porta fino al culmine acuto dove dà il via all’orchestra. Di lì in poi il solista conduce tutti entrando e uscendo dalla massa degli archi, ora nascondendosi ora aprendo vie del tutto nuove. Ma ne seguirà lo stesso movimento verso lo scuro limite grave. […]4

4 Luca Francesconi.

5 – Sinfonia da camera op.110a, orchestrazione di Rudolf Baršaj dal Quartetto per archi n.8 di Dmitrij Šostakovič

Conclude il concerto il testamento in musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, nella riscrittura del direttore Rudolf Baršaj: la Sinfonia da Camera op.110, specchio dell’ottavo quartetto del compositore. Eseguito per la prima volta durante i funerali del suo creatore, il brano acquisì in tal modo un forte spirito commemorativo, sottolineato dallo stesso commento dell’autore:

[…] Provo eterno dolore per coloro che furono uccisi da Hitler, ma non sono meno turbato nei confronti di chi morì su comando di Stalin. Soffro per tutti coloro che furono torturati, fucilati, o lasciati morire di fame. Molte delle mie Sinfonie sono pietre tombali. Troppi della nostra gente sono morti e sono stati sepolti in posti ignoti a chiunque, persino ai loro parenti. Dove mettere le lapidi? Solo la musica può farlo per loro. Vorrei scrivere una composizione per ciascuno dei caduti, ma non sono in grado di farlo, e questo è il solo motivo per cui io dedico la mia musica a tutti loro. […]

Il riarrangiamento di Barshai è una trascrizione quasi letterale del quartetto scritto dal compositore nel 1960 durante una visita nella Germania dell’Est. Il motivo primario che scatenò tale composizione fu l’innominabile orrore scaturito nell’anima di Šostakovič per la distruzione provocata dal conflitto e di qui la dedica a tutte le vittime della guerra e di tutte le dittature, ma il pezzo è anche un requiem autobiografico, dove i musicisti sono simultaneamente orchestrali in perfetta sintonia tra loro e solisti di estrema qualità.

Costruito su cinque movimenti senza alcuna pausa, il cui nucleo è formato da un tema di quattro note costruito sull’abbreviazione del nome del compositore: DSCH (Dmitrij Schostakovitch nella traslitterazione tedesca), che diventa DECB nella notazione tedesca, cioè Re – Mi bemolle – Do – Si bemolle. Tema con il quale comincia il pezzo in maniera fugace e sul quale ritorna più volte, come un satellite che gira intorno aleggiando su tutto il componimento. Il primo movimento, dall’umore elegiaco viene distrutto dal Blitzkrieg del secondo movimento, un Allegro molto, dove il tema di fondo viene annichilito e ricostruito più volte, come un’araba fenice che risorge dalle ceneri. Il terzo movimento è un inquietante Allegretto quasi rondò, dove il primo violino ripete ossessivamente il Leitmotiv in contrapposizione al resto degli strumenti per poi morire e rinascere con il marziale tema principale del primo concerto per violoncello dell’autore. Segue il quarto movimento, Largo, dove l’orchestra diventa una fila di artiglieria che disintegra il tessuto melodico, a ricordare i bombardamenti della guerra, mentre il primo violino, con un ronzìo quasi impercettibile e ipnotico si trasforma in un lontano aeroplano, il quale muta nel tema del Dies irae cattolico e poi in quello della canzone di Katerina nella Lady Macbeth del distretto di Mtsensk, capolavoro teatrale del compositore russo. Questi temi si rincorrono e trasformano l’uno con l’altro in maniera ciclica per poi finire nel quinto movimento, un ritorno elegiaco verso una fuga aerea e apollinea, celebrante l’essere umano che si eleva nella musica dell’eternità.

INFO: http://www.operadifirenze.it/it/Posto unico € 15 Biglietti in vendita presso il Teatro del Maggio: La biglietteria del Teatro del Maggio è aperta dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 18.00 e da due ore prima dell’inizio dello spettacolo. Biglietteria on-line su www.operadifirenze.it

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