Tre Allegri Ragazzi Morti, “Garage Pordenone. Il Disco della settimana.

Per il loro 30° compleanno, Tre Allegri Ragazzi Morti pubblicano per Tempesta Dischi “Garage Pordenone”, un nuovo album di inediti, il 10° della loro discografia. Dodici nuove canzoni del gruppo che da sempre unisce rock e fumetto.

“Garage Pordenone”è il decimo lavorodi inediti di Tre Allegri Ragazzi Morti, dodici nuove canzoni checelebrano la musica e la storia di un gruppoche ha saputo sintetizzare rock e fumetto, divenendo un punto di riferimento per la scena musicale indipendente. L’album esce per La Tempesta Dischi, l’etichetta fondata ne 2000 dalla stessa band per pubblicare i propri lavori, ma che nel tempo è diventata un punto di riferimento per la scena indipendente italiana, pubblicando una serie incredibile di artisti. Il nome dell’album invece richiama dal passato la leggendaria Rock City friulana degli anni ’80 da cui la band proviene, celebrando la poetica nata in uno dei centri artisticamente più prolifici e attivi della provincia italiana. Un album contemporaneo, lontano dalle nostalgie e che anzi guarda al futuro della band, che festeggerà la propria storia e il proprio presente con un anno di concerti ed eventi speciali.

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Tra filastrocche punkeggianti, ballate acustiche, racconti wave, dichiarazioni esistenziali su ritmi rocksteadye una chiusura con un brano di “musica concreta” con interprete principale un merlo, i protagonisti di queste storie sono sempre Tre Allegri Ragazzi Morti nell’esorcismo ad alto volume contro le tante storture del mondo.

Nell’album appaiono le chitarre di Adriano Viterbini, Marco Gortana, Matteo Da Ros; le mani in scrittura di Alex Ingram, Andrea Maglia e Wilson Wilson. alla regia di questo fiume creativola produzione di Paolo Baldini, che ha segnato alcuni importanti dischi precedenti del trio pordenonese come “Primitivi del futuro” (2010) e “Nel giardino dei fantasmi” (2012). Dubmaster di fama mondiale, Baldini, per questo album, si è messo al servizio del rock, fatta eccezione per il brano “Mi piace quello che è vero”, unico episodio rocksteady.

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Ad anticipare la pubblicazione una manciata di singoli. Il primo, “Ho’oponopono”, è un curioso brano rock, veloce, che rimette le lancette dell’orologio indietro rispetto alla storia del gruppo. Una traccia stratificata e potente con un testo ironico che scopre un mondo occidentale intrappolato in una visione consumistica ma suggestionato da desideri mistici: il titolo stesso si riferisce a un’antica pratica hawaiana per il perdono interiore, la cancellazione di memorie e pensieri negativi, e la risoluzione dei conflitti.

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Intanto è incominciato un lunghissimo tour che finirà a settembre, ma che toccerà la Toscana (per quel che ci è dato di sapere ad oggi), solo il 3 Maggio al Viper Theatre di Firenze.

Garage Pordenone dei Tre Allegri Ragazzi Morti è il nostro “Disco della Settimana“.

 

The Black Keys, “Ohio Players”. Il Disco della Settimana.

E’ il 12° album in studio della band nativa di Akron passata dai polverosi garage dell’underground alla conquista di  numerosi Grammy Award. “Ohio Players” è un disco festoso, tanto vario da sembrare confusionario, come le vere feste.

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Pubblicato da Nonesuch Records e anticipato all’inizio dell’anno dal singolo “Beautiful People (Stay High)“,  Ohio Players” è il 12° album in studio della band nativa di Akron (OH), vincitrice di numerosi Grammy Award, ma partita nel lontano 2001 dalle polverose cantine del garage rock.

Il brano che ha anticipato l’album, scritto da Dan Auerbach e Patrick Carney dei Black Keys con gli amici di lunga data Dan “The Automator” Nakamura e Beck, è la celebrativa e gioiosa “Beautiful People (Stay High)”, una delle numerose canzoni dell’album che vedono la collaborazione della band con amici e colleghi, tra cui Noel Gallagher, Greg Kurstin (già tastierista per Beck) e molti altri.

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“Abbiamo avuto questa illuminazione! Possiamo chiamare i nostri amici per aiutarci a fare musica’. È buffo perché entrambi scriviamo canzoni con altre persone – Dan tutto il tempo [come artista solista e produttore], io quando produco un disco. È quello che facciamo [] Quello che volevamo fare con questo album era creare qualcosa di divertente”E’ qualcosa che la maggior parte delle band con vent’anni di carriera alle spalle non fa, cioè un disco accessibile, divertente e anche cool”.ha detto Patrick Carney.

Auerbach aggiunge: “Non importa con chi lavoriamo, non abbiamo mai la sensazione di sacrificare ciò che siamo. È come se si aggiungesse un tocco speciale. Abbiamo semplicemente ampliato la tavolozza con le persone con cui volevamo lavorare. Eravamo lì a sostenere loro e le loro idee, facendo tutto il possibile affinché quel momento ci desse il massimo risultato possibile. Però quando è arrivato il momento di finire l’album, eravamo solo io e Pat. Non abbiamo mai lavorato così duramente per un disco”, continua. “Non abbiamo mai impiegato così tanto tempo per fare un album. Ci siamo presi il nostro tempo e l’abbiamo fatto bene”.

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Durante la lavorazione di “Ohio Players”, titolo ispirato all’omonima leggendaria band funk di Dayton (OH), i Black Keys erano impegnati anche in veste di DJ in feste di città di tutto il mondo, feste che avevano denominato “Record Hangs”, suonando 45 giri presi dalle loro enormi eclettiche collezioni.  “Lo spirito di quelle feste ha infuso il DNA dell’album. È stato questo il divertimento, lasciarsi andare un po’” , dice Auerbach.

Il disco è stato realizzato in collaborazione con Beck Hansen, co-autore di sette delle quattordici tracce del disco, anche se compare ufficialmente come featuring solo in “Paper crown”. La chitarra dell’ex Oasis Noel Gallagher, invece, è protagonista nella ballata “On the game” e e nell’ibrido retrò di “Only love matters”.

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Il disco in definitiva riprende e porta alle estreme conseguenze le intuizioni di quel periodo, la fine degli anni ’90, in cui sembrava possibile ibridare infiniti generi tratti dalla storia della musica inventando una nuova coerenza stilistica, gli anni di Happy Mondays, Beck, Primal Scream. Blues, soul, funk, ma anche musica da ballare, psichedelia, noise, garage, exotica, hip hop, shakerati, spinti al massimo e scaraventati in una adrenalinica atmosfera di festa.
Non mancano brani nel più classico, sporco, garage blues (Please Me, Live tilll I Die, Fever Tree), una pepita da crate digger  (cover dello standard soul del ’68 firmato da William Bell e Booker T. Jones I Forgot to Be Your Lover) e una incursione nel Northern Soul (You’ll Pay). Ovviamente, con tanta carne al fuoco, non tutti i brani hanno la stessa efficacia, ma dove la formula funziona a dovere il risultato è decisamente soddisfacente.

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I Black Keys hanno annunciato una lunga serie di date live in Nord America, Gran Bretagna e Irlanda. Per ora nessuna incursione è prevista dalle nostre parti.

Intanto SXSW ha annunciato l’inclusione del nuovo documentario This is a Film About The Black Keys nel suo festival nel 2024. Il documentario ripercorre lo straordinario viaggio che ha portato Dan e Patrick, due ragazzi di quartiere che suonavano in uno scantinato dell’Ohio, allo status di superstar del rock’n’roll.

Ohio Players, di The Black Keys è il nostro “Disco della Settimana”.

The Libertines, “All Quiet On The Eastern Esplanade”. Il Disco della Settimana

Dopo nove anni dal terzo album, The Libertines, la band che insieme a The Strokes ha definito l’estetica indie “sleaze” all’inizio del millennio, tornano con l’attesissimo quarto album, già preceduto dai singoli  “Run Run Run”, “Shiver” e “Oh, Shit”.

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Quarto lavoro della band britannica che esordì nel lontano 2002 con il fortunatissimo instant classic “Up the bracket” (prodotto da Mick Jones dei Clash) definendo i parametri di certo “garage rock” per come lo si intendeva ad inizio millennio. La storia dei Libertines è di quelle tormentate, come il rapporto delle due anime che diedero vita al gruppo, i due giovanissimi squatter Pete Doherty e Carl Barat. Il complesso guadagna notorietà in Gran Bretagna, divenendo fenomeno di costume, e raggiunge un incredibile inaspettato successo nonostante i problemi con l’eroina del cantante e chitarrista Pete Doherty, il quale nel 2003 viene arrestato per aver rubato proprio in casa del suo compagno di band. Nel 2004 esce il secondo album (“The Libertines”), che viene ben accolto dalla critica di settore, ma dopo l’uscita dell’album Doherty lascia definitivamente la band, che si scioglie ufficialmente nel 2005. Carl Barât forma quindi i Dirty Pretty Things, mentre Pete Doherty diviene il leader dei Babyshambles. Nel 2010 la band annuncia la propria ricostituzione per una serie di eventi live. Il terzo album, “Anthems for Doomed Youth”, esce nel settembre 2015.

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“All Quiet On The Eastern Esplanade” (il nostro “Disco della Settimana“) segna una nuova tappa dell’attività del quartetto che, sparso tra Francia, Danimarca, Margate e Londra, ha riconsolidato il legame artistico ed è riuscito a tirar fuori quella che probabilmente è la prova migliore e più matura della sua carriera musicale.

La storia della scrittura di All Quiet On The Eastern Esplanade inizia nel settembre del 2022 a Port Antonio in Giamaica dove Doherty e Barât si riuniscono e lontani da ogni distrazione la chimica tra i due rinasce. A febbraio di quest’anno poi Peter e Carl si riuniscono a John and Gary a The Albion Rooms e, racconta Doherty, “siamo davvero tornati insieme come band. È stato un raro momento di pace e unione con il contributo di tutti i membri della band…  Mi sento come se avessimo completato un cerchio come band. Ci saranno altri dischi dei Libertines? Lo spero!””.

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L’album, che contiene 11 nuovi brani Libertines scritti dai quattro componenti, è stato prodotto dal producer nominato ai Grammy Dimitri Tikovoï (The Horrors/Charli XCX/Becky Hill) e registrato ai The Albions Rooms di Margate. I lavori di registrazione si sono svolti in sole quattro settimane tra Febbraio e Marzo 2023, seguiti da sette giorni di mix presso i La Ferme de Gestein Studios in Normandia ad opera di Dan Grech- Marguerat (Lana Del Rey/Liam Gallagher/Paul McCartney).

Secondo Carl, il viaggio dei Libertines li ha portati a questo momento. “Il nostro primo disco è nato dal panico e dell’incredulità dati dal fatto che ci era stato permesso di entrare in studio: il secondo è nato dal conflitto totale e dalla miseria; il terzo è nato dalla complessità; in quest’ultimo è come se fossimo tutti nello stesso posto, alla stessa velocità e davvero in sintonia”.

L’album si intitola “All Quiet On The Eastern Esplanade” perché unisce un accenno all’indirizzo del loro hotel all’amore per il famoso romanzo antimilitarista di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Parlando del primo singolo, “Run Run Run”, Carl Barât lo ha descritto come una: “canzone (che) parla di quando ci si sente in trappola e si tenta di scappare dalla propria triste vita un po’ come in ‘Post Office’ di Bukowski. La peggior cosa per i Libertines sarebbe restare bloccati nella routine del ‘corri corri corri’ cercando costantemente di rimanere ancorati al passato”.

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La band ha annunciato un lungo tour a supporto della nuova uscita che prevede anche due date in Italia. Gli appuntamenti con loro sono previsti a luglio, lunedì 1 a Villa Ada di Roma e  martedì 2 al Circolo Magnolia di Segrate (MI).

I biglietti, sono disponibili su ‘Dice.fm‘.

I The Libertines sono Peter Doherty – voce/chitarra, Carl Barât – voce/chitarra, John Hassall – basso e Gary Powell– batteria. La band ha pubblicato tre album: Up The Bracket (2002); The Libertines (2004); e Anthems For Doomed Youth (2015).

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Ride, “Interplay”. Il Disco della Settimana.

Tra i capiscuola del cosiddetto “shoegaze”, i Ride hanno pubblicato il loro 3° album dalla reunion del 2014. “Interplay“, uscito per Wichita Recordings presenta un gruppo che travalica definitivamente i confini del genere verso un electro rock anni ’80 venato di kraut rock.

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I Ride hanno annunciato la pubblicazione del nuovo album “Interplay“, uscito il 29 marzo su Wichita Recordings / PIAS. Il disco, il terzo dalla reunion della band britannica datata 2014, arriva a 5 anni di distanza dal precedente “This Is Not a Safe Place” ed è stato anticipato dai singolo Peace Sign, Last Frontier e Monaco.

Tra i più influenti protagonisti dello shoegaze, forma di psichedelia inglese che tra la fine degli anni 80 e i primi 90 incrociava distorsioni noise-rock, suggestioni sixties e melodie dolci e sognanti, la band di Andy Bell ha costituito una sorta di ponte verso l’esplosione della scena britpop.

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Provenienti da Oxford, i RIDE si formano nel 1988. Il gruppo era (ed è) composto da Mark Gardner (chitarra e voce), Andy Bell (chitarra e voce, poi bassista negli Oasis), Steve Queralt (basso) e Loz Colbert (batteria, poi con Jesus & Mary Chain, Supergrass e Damo Suzuki dei Can). Fin dagli inizi, sopratutto nei primi due album (Nowhere e Going Blank Again), si distinsero per un suono pop noise psichedelico inserendosi nel movimento che fu detto “shoegaze” (dall’abitudine dei musicisti in questione di “guardarsi le scarpe” durante i live, e che vedeva i capiscuola nei My Bloody Valentine) riscuotendo un ottimo riscontro commerciale e di critica. Dal terzo album il sound virerà verso un pop-rock di matrice sixties. Nel 1996, dopo un quaro album, la band si sciolse ufficialmente.

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Dalla reunion del 2014 “Interplay” è il terzo album della band, ormai insieme più a lungo nella loro attuale seconda fase rispetto alla loro versione originale. Segue “Weather Diaries” del 2017 e “This Is Not A Safe Place” del 2019, che hanno presentato una delle band di chitarristi più lungimiranti della loro generazione a un pubblico completamente nuovo.

Prodotto dalla band con Richie Kennedy e mixato da Claudius Mittendorfer, collega tutti i punti della loro carriera, presentando un sound che resta essenzialmente chitarristico e sognante ma che poggia su groove ipnotici di matrice “kraut” e tappeti sonori e sequenze elettroniche che non possono non rimandare a Depeche Mode, New Order o Tears For Fears e Talk Talk.

E’ piuttosto curioso notare come, in una scena globale piena di band debitrici (Tame Impala, Beach House, DIIV), di loro coetanei ancora legati alla scena “shoegaze” (My Bloody Valentine, Slowdive), proprio nei giorni in cui il genere è tornato in voga tra i fan della Gen-Z tramite TikTok, i Ride invece se ne distanzino tornando invece ai suoni della loro “formazione”, quelli della pop wave dei primi anni ’80.

Noi intanto ascoltiamo con più attenzione “Interplay”, dei Ride, è infatti il nostro Disco della Settimana.

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Gary Clark Jr. “JPEG RAW”. Il Disco della Settimana.

Blues urbano, suggestioni afrocentriche, funk, R&B ipercontemporaneo. Con JPEG Raw, il suo quarto album, Gary Clark Jr. porta il blues ad un’altra, futuristica, dimensione.

JPEG Raw è il quarto album in studio del musicista blues rock americano Gary Clark Jr. È stato pubblicato il 22 marzo 2024 per la Warner e vede le collaborazioni di Stevie Wonder, George Clinton, Valerie June e Keyon Harrold.

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Il titolo JPEG Raw è l’acronimo di “Jealousy, Pride, Envy, Greed, Rules, Alter Ego, Worlds”. L’album è stato scritto in un periodo di tempo in cui Clark Jr. si ritrovava da solo in studio durante la quarantena per il COVID-19 nel marzo 2020. Ha spiegato che JPEG Raw riguarda “mostrare il reale e non l’edit”, stanco di non avere “un’interazione più genuina” a causa di un “mondo di modifiche, filtri e ripetizioni”. L’album lo vede espandere la sua gamma di influenze, tra cui la musica tradizionale africana, il jazz, il rock, l’R&B contemporaneo l’hip-hop e il blues. Il musicista porterà il disco dal vivo dal maggio 2024 partendo dagli Stati Uniti, e arriverà in Italia per quattro date a luglio: Ferrara, Udine. Gardone Riviera, Roma.

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Incredibile virtuoso del blues, che fonde R&B, musica tradizionale africana,punk, hip-hop e soul contemporaneo, con questo nuovo riuscitissimo album ridisegna il genere adattandolo ai nostri tempi portandolo ad una dimensione inedita e super-contemporanea.

Gary Lee Clark Jr. (nato il 15 febbraio 1984) è un chitarrista e cantante blues americano di Austin. Nel 2011, Clark firmò con la Warner Bros Records e pubblicò l’EP Bright Lights. Sono seguiti gli album Blak and Blu (2012) e The Story of Sonny Boy Slim (2015). Nel corso della sua carriera, Clark è stato un prolifico artista dal vivo, documentato da Gary Clark Jr. Live (2014) e Gary Clark Jr Live/North America (2017). Nel 2014, Clark ha ricevuto un Grammy per la migliore performance R&B tradizionale per la canzone “Please Come Home”. Nel 2020, ha vinto il Grammy Award per “Miglior canzone rock” e “Miglior performance rock” per la canzone “This Land” di quell’album.

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Chitarrista tra i migliori in circolazione,Gary Clark Jr. ha condiviso il palco con numerose leggende del rock and roll. Descritto come ‘il futuro del blues del Texas’, la sua bravura alla chitarra e il suo particolare timbro vocale lo accomunano a giganti quali Jimi Hendrix, Eric Clapton e Jeff Beck.

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Al suo quarto lavoro registrato in studio arricchito da collaborazioni d’eccezione, il bluesman Gary Clark Jr conferma una decisa e intrigante evoluzione musicale, che lo porta ben oltre a quanto aveva registrato in precedenza. Questo disco conferma una decisa apertura verso sonorità innovative, dove gli stili si mischiano dando luogo a qualche cosa di decisamente nuovo. Basicalmente sempre legato al blues, la sua musica di base, Gary Clark apre i suoi orizzanti alle più varie contaminazioni con un virtuosismo chitarristico fuori dall’ordinario, ben oltre ogni attesa. Crudo e diretto, Gary progetta la sua musica intrigante ed innovativa con una visione (anche in qualche modo “ politica”) molto chiara e peculiare. I riferimenti al jazz, a Thelonious Monk, ai classici del blues (Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson), si uniscono a suggestioni afrocentriche di World Music e, soprattutto in questo ultimo lavoro ad un r&b futuristico ed affascinante.

Sebbene, come in tutte le esperienze più sperimentali, non tutti i brani colpiscano il segno con la medesima efficacia, brani come Maktub, Jpeg Raw, Don’t Star, This Is Who We Are, Habits, Funk With U, Alone Togheter, confermano l’apertura a sonorità innovative che escono dai canoni del già sentito, per creare qualche cosa di decisamente inedito che potrebbe risultare interessante anche per le giovanissime generazioni e che potrebbe portare il genere blues a nuovi, eccitanti, sviluppi.

JPEG Raw di Gary Clark Jr.è il nostro “Disco della Settimana”.

The Black Crowes, “Happiness Bastards”. Il Disco della Settimana

A distanza di 15 anni dall’ultimo album, 10 dei quali passati senza rivolgersi parola, i fratelli Robinson hanno pubblicato un nuovo disco in studio a nome The Black Crowes. Energico ed essenziale il disco rimane fedele alle coordinate della band mostrandoci dei musicisti in grande forma.

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“Happiness bastards è la nostra lettera d’amore al rock’n’roll. Rich e io scriviamo e creiamo sempre musica; questo processo non si è mai fermato ed è il luogo in cui troviamo armonia insieme. Questo disco rappresenta questo percorso. L’ album è la continuazione della nostra storia come band. I nostri anni di esperienza nello scrivere, fare musica e girare il mondo sono rappresentati in questo disco, e siamo stati brillantemente guidati dal talentuoso Jay Joyce. Sono davvero orgoglioso di ciò che abbiamo messo insieme” dice Chris Robinson.

‘Happiness Bastard’ (il riferimento è all’unico romanzo dell’americano Kirby Doyle, ispirato al classicissimo ‘On The Road’ di Jack Kerouac) è il primo album in studio dei Black Crowes in ben quindici anni, dopo Before The Frost… Until The Freeze. I proverbiali diverbi fra Chris e Rich bloccarono poi il percorso della band. Chris si lanciò dunque in una carriera solista di ottimo livello con il suo progetto Chris Robinson Brotherhood, Rich con i Magpie Salute

Nel 2020 fu il trentesimo anniversario del loro fortunatissimo “Shake Your Money Maker” (il folgorante esordio del 1990) l’occasione per riallacciare i contatti. Fu pianificato un tour celebrativo (poi rimandato a causa della pandemia) con centocinquanta date in giro per il globo, nel 2022 fu pubblicato “1972”, un ep con sei cover di canzoni uscite in quell’anno. Dopo questa sorta di “training” i fratelli furono pronti a “mettersi finalmente tutte le stronzate alle spalle” (come dice Chris) e  lanciarsi nella scrittura di nuvo materiale originale. E’ questa la genesi dei dieci brani di Happiness Bastards che vedono la formazione dei fratelli Robinson accompagnarsi ad ottimi musicisti come il bassista e amico Sven Pipien (con loro fin dal 1997), Nico Bereciartua (chitarra solista), Cully Symington (batteria) ed Erik Deutsch (tastiere).

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I riferimenti restano solidamente gli stessi, gli Stones primi anni ’70, Led Zeppelin, il Southern Rock degli Allmans Brothers, ma anche gli Aerosmith, Sly & The Family Stone, ma anche tanto soul e tanto rhythm’n’blues, e se la scrittura non è sempre all’altezza dei loro picchi creativi, l’incredibile potenza ed energia che animano le nuove composizioni ci restituisce (in un periodo storico di superproduzioni e musica sintetica) un ottimo album interamente “suonato” di buon vecchio sano sincero Rock & Roll.

L’Happiness Bastards Tour prenderà il via a Nashville il prossimo 2 aprile, e arriverà per un’unica data italiana lunedì 27 maggio al Teatro Arcimboldi Milano.

Intanto, Happiness Bastards di The Black Crowes è il nostro “Disco della Settimana”.

 

 

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