Pisa: arriva il Navigatore elettorale, l’app che guida nel voto

Indecisi su chi votare alle elezioni del 4 marzo? C’è il Navigatore elettorale, un’applicazione online nata dall’idea di alcuni docenti di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, che aiuta gli elettori a orientarsi tra le varie proposte politiche delle prossime consultazioni.

Collegandosi al sito https://navigatoreelettorale.it e rispondendo a 32 domande, spiega una nota dell’università di Pisa, “l’utente viene posizionato su una mappa, dove può vedere a quale partito è più vicino (in generale e su ogni singolo tema) e capire come la pensano i partiti sulle varie tematiche”. Il Navigatore elettorale è stato sviluppato dai ricercatori dell’ateneo presieduto da Luciano Bardi e diretto da Enrico Calossi ed Eugenio Pizzimenti.
Lo strumento è nato grazie alla collaborazione tra l’Osservatorio su Partiti Politici e Rappresentanza (costituito presso l’Osservatorio su Politica e Istituzioni del dipartimento di Scienze Politiche), l’Università di Amsterdam e il centro di ricerca olandese Kiescompass.
“Le oltre 40 tematiche raccolte inizialmente – sottolineano Calossi e Pizzimenti – sono state sottoposte ad analisi fattoriale attraverso il ricorso a panel group, per poter così essere raggruppate in 7 macro-tematiche. Successivamente sono state individuate le posizioni ufficiali dei partiti, sulla base di una gerarchia di fonti primarie e secondarie”. Secondo i ricercatori “il Navigatore elettorale è uno strumento indipendente, che consente all’elettore di orientarsi meglio, in una fase di così estrema incertezza e con un’offerta politica così ampia”

Ogm. Studio fatto in Toscana rilancia dibattito. Tulio Marcelli

Ma gli agricoltori non ci stanno. «Il mais Ogm non fa male alla salute». Così dicono i risultati di un’analisi della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università di Pisa sui dati relativi a 21 anni di coltivazioni: resa maggiore, meno insetti e meno contaminanti. Ma gli agricoltori presentano altri dati. L’analisi del Presidente della Coldiretti Toscana.

Il mais ogm non è rischioso per la salute

La notizie emerge da uno studio ventennale condotto da Scuola Superiore Sant’Anna e Università di Pisa. Analizzate coltivazioni dal ’96 al 2016.

Il mais ogm non e’ rischioso per la salute umana. Secondo la prima e piu’ vasta analisi dei dati relativi a 21 anni di coltivazioni nel mondo ”non c’è alcuna evidenza di rischio per la salute umana, animale o ambientale dal mais transgenico”. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports e condotto da Scuola Superiore Sant’Anna e Università di Pisa, ha analizzato i dati sulle colture dal loro inizio nel 1996 fino al 2016, in Usa, Europa, Sud America, Asia, Africa e, Australia.

“Questa analisi fornisce una sintesi efficace su un problema specifico molto discusso pubblicamente”, ha rilevato la coordinatrice della ricerca, Laura Ercoli, docente di Agronomia e Coltivazioni Erbacee all’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna. Con lei hanno lavorato Elisa Pellegrino, Stefano Bedini e Marco Nuti.

Tutti gli autori rilevano che “lo studio ha riguardato esclusivamente l’elaborazione rigorosa dei dati scientifici e non l’interpretazione ‘politica’ dei medesimi” e ritengono che i dati appena pubblicati permettono di “trarre conclusioni univoche, aiutando ad aumentare la fiducia del pubblico nei confronti del cibo prodotto con piante geneticamente modificate”.

Dall’analisi di 11.699 dati contenuti in articoli di riviste scientifiche accreditate, è emerso che le colture di mais transgenico hanno una resa superiore dal 5,6% al 24,5%, aiutano a ridurre gli insetti dannosi ai raccolti e hanno percentuali inferiori di contaminanti pericolosi negli alimenti, come micotossine (-28,8%) e fumonisine (-30,6%).

Da Pisa studio su bioshopper poco biodegradabili

Ci vogliono più di sei mesi al mare per “smaltire” i bioshopper ecologici che in ogni caso possono comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino ossigeno, temperatura e ph. Lo rivela uno studio condotto da un team di biologi dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica ”Science of the Total Environment”.

Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci ha ricreato un ecosistema in miniatura per analizzare i potenziali effetti diretti o indiretti dell’immissione nell’ambiente marino delle nuove buste in bioplastica, la cui diffusione si prevede possa aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere livelli simili a quelli delle buste tradizionali.

“La nostra ricerca – sottolinea Lardicci – si inserisce nel dibattito sul ”marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, tema globale e purtroppo molto attuale: abbiamo potuto verificare che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi”. Come specie modello i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento di della bioplatica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante. “La nostra ricerca – conclude il biologo pisano – è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori: i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette biodegradabili nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.

Università di Pisa: Virus epatite B identificato in bimbo di 450 anni fa

Per anni si è pensato che la causa della morte di un bambino, il cui corpo è conservato nelle arche sepolcrali della Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, fosse il vaiolo. “Si tratta del virus dell’epatite B”, è stato riportato oggi in un comunicato stampa.

Il team internazionale che ha effettuato la scoperta, è composta dai ricercatori della McMaster University di Hamilton in Canada, diretto da Hendrik Poinar, e della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, costituita da Gino Fornaciari e Valentina Giuffra.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista online ‘Plos Pathogens’. Nel corso delle missioni esplorative dell’Università di Pisa nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, dirette dal professor Gino Fornaciari negli anni ’80-’90, fu ritrovata la mummia intatta di un bambino di due anni che vestiva ancora la veste monastica dell’Ordine Domenicano, grazie alla quale i ricercatori hanno ottenuto il sequenziamento completo del genoma di un antico ceppo del virus dell’epatite B (Hbv).
“Mentre in genere i virus si evolvono molto rapidamente, è stato visto che questo antico ceppo di Hbv è mutato poco negli ultimi 450 anni – spiega il professor Fornaciari – È stata infatti rilevata una stretta relazione tra i ceppi antichi e moderni di epatite B: entrambi mancano di quella che è nota come ‘struttura temporale’. In altre parole, non vi è alcun tasso misurabile di evoluzione per tutto il periodo di 450 anni, che separa il campione prelevato dalla piccola mummia da quelli moderni.
La spiegazione potrebbe consistere nel fatto che, essendo l’epatite B una malattia sessualmente trasmessa, e non tramite animali o insetti vettori, il virus non ha avuto la necessità di mutare almeno negli ultimi cinque secoli”. L’eruzione vescicolo-pustolosa del bambino e analisi immunologiche di trenta anni fa (allora gli studi sul DNA antico non erano ancora disponibili) avevano suggerito che il bambino fosse stato affetto da vaiolo. Utilizzando tecniche avanzate di mappatura genetica, i ricercatori hanno dimostrato chiaramente che il bambino era stato infettato dall’HBV.
È interessante notare che i bimbi con infezione da epatite B possono sviluppare un’eruzione facciale, nota come sindrome di Gianotti-Crosti, che potrebbe essere stata identificata come vaiolo. Non può essere però esclusa anche una co-infezione. Secondo alcune stime, oltre 350 milioni di persone oggi hanno infezioni croniche da epatite B, mentre circa un terzo della popolazione mondiale risulta essere stata infettata a un certo punto della vita. Ecco perché, secondo i ricercatori, è importante studiare i virus antichi.
“Più comprendiamo il comportamento delle pandemie e delle epidemie passate, maggiore è la nostra comprensione di come i moderni agenti patogeni potrebbero diffondersi. E queste informazioni alla fine contribuiranno agli sforzi per controllare questi minuscoli killer”, afferma Hendrik Poinar, genetista evolutivo del McMaster Ancient Dna Center e investigatore principale all’Istituto Michael G. DeGroote per la ricerca sulle malattie infettive.

Agricoltura: Regione promuove allevamenti “gallina livornese”

Convegno l’11 novembre per incentivare mercato specie.

Fare divulgazione sulla gallina livornese. E’ questa la finalità del convegno sulla razza avicola tipica di Livorno che si terrà sabato 11 novembre al Museo di storia naturale del Mediterraneo di Livorno.

L’iniziativa è stata presentata oggi a Firenze nel corso di una conferenza stampa cui hanno partecipato l’assessore regionale all’agricoltura Marco Remaschi, il segretario del Club italiano della razza Livorno Giuseppe Chionetti, la ricercatrice del dipartimento scienze veterinarie dell’Università di Pisa Margherita Marzoni Fecia di Rosato e l’ex consigliere regionale Mario Lupi, in veste di promotore del convegno.

“Sosteniamo volentieri questa iniziativa che si inserisce perfettamente nel percorso di valorizzazione della biodiversità che la regione porta avanti da oltre vent’anni”, ha detto
l’assessore Remaschi.

“Salvaguardare la specificità di razze come quella livornese – ha aggiunto – rientra perfettamente nell’obiettivo di coniugare le nostre attività di pregio al loro territorio di provenienza. Perchè la Toscana è questo: è qualità che si abbina e si coniuga con l’identità”.

La gallina livornese, quella dalle uova bianche, hanno spiegato i rappresentanti del Club italiano razza Livorno, è probabilmente la più conosciuta e diffusa al mondo. E’ quindi importante sottolinearne le radici livornesi e stimolare un rilancio degli allevamenti nella sua zona di provenienza (attualmente sono una quindicina).

Il convegno si aprirà sabato mattina alle 10 e si svilupperà fino al termine della mattina consentendo una panoramica approfondita su qualità, caratteristiche, origini storiche della gallina livornese, ma anche indicazioni pratiche su come poterla allevare.

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