La certificazione “Filiera della moda certificata” introdotta dal Ministero delle imprese nel Ddl PMI prevede che le aziende possano garantire, su base volontaria, la sicurezza della filiera produttiva. Insorgono i sindacati e le associazioni di categoria, “così – dicono – si elimina la responsabilità dei committenti rispetto alle irregolarità”.
È un’alzata di scudi generale contro la norma salva griffe. Si levano sindacati, artigiani, politica, convinti che non basterà una certificazione per salvare il mondo della moda dallo sfruttamento e che anzi, proprio quel disegno di legge approvato in prima lettura al Senato mercoledì sera viene interpretato come uno scudo per le imprese, lasciate libere di certificare la filiera per garantirne la correttezza sul fronte del lavoro, del fisco e della sicurezza. Quello che per il ministro del Italy Adolfo Urso è un “passo storico”, per artigiani e rappresentanti sindacali è invece un vero “abominio”, anche tenendo conto che la misura arriva a seguito di una serie di indagini che avevano riguardato, tra le altre, il gruppo Tod’s. I confederali esprimono preoccupazione, parlano di un passo indietro incomprensibile che cancella i progressi fatti con i commissariamenti dei brand. Ma la reputazione, fanno osservare, evidentemente conta più del rispetto delle legge 231 del 2001. Il Ddl presenterebbe diverse lacune e lascerebbe aperta la porta al dumping contrattuale, dunque un modo, chiariscono i SUDD Cobas, per favorire e istituzionalizzare lo sfruttamento, l’illegalità e salvare il caporalato.
Non usa parole diverse il Pd: “norma preoccupante” dicono, annunciando un emendamento. Servono correttivi, rincarano la dose da Federazione Moda di Confartigianato Imprese e CNA Nazionale, mentre unica voce a favore pare essere CNA Toscana che in modo tranchant ammette: “assolutamente favorevole e soddisfatta”.